Epopea africana.
Nonostante il tema affrontato, Matteo Garrone con Io capitano, in Concorso all’ottantesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, ha girato un film asciutto, secco, essenziale, senza ricorrere a facili pietismi, senza l’assillo e l’urgenza di voler muovere alle lacrime a tutti i costi, cercando di non essere retorico o didascalico. Realizzato da una prospettiva a noi aliena, quella dei migranti che rischiano la vita pur di lasciare le loro case in cerca di un futuro migliore, Io capitano è il film che noi italiani ed europei non vogliamo vedere. È un film italiano dove non si parla la nostra lingua ma il wolof (uno dei dialetti parlati in Senegal) e il francese e dove non si vede il nostro paese, se non sul finire, da lontano, a bordo di uno dei tanti barconi fatiscenti che ogni giorno provano ad approdare sulle nostre coste col loro carico di sofferenza e disperazione, misto alla speranza per un domani migliore, per sé e per i propri cari.
Garrone ci mostra tutto il viaggio, partendo da Dakar, in Senegal, il paese di appartenenza dei giovanissimi Seydou e Moussa, due cugini di sedici anni che dopo aver lavorato per mesi per racimolare una somma adeguata, decidono, all’insaputa delle famiglie, d’iniziare la loro personale odissea per tentare di arrivare in Europa. Il regista romano, che già nel suo film d’esordio a episodi, Terra di mezzo, diretto nel 1996 e sviluppato a partire da un suo corto, Silhouette, aveva raccontato e messo in scena le storie di ordinaria emarginazione di alcuni immigrati in Italia, non ci risparmia niente, ci porta anche all’interno di una delle tante prigioni lager dove Seydou viene rinchiuso e torturato. Garrone ci rende partecipi di tutte le tappe/stazioni della Via Crucis di questi giovani migranti ma non calca mai la mano, si tiene a debita distanza dal vero orrore che in quanto tale è difficilmente riproducibile in un’opera di finzione, decidendo con lucidità e pudore di farcelo solo intravedere. L’odissea del giovane Seydou diviene così un racconto di formazione, modulato in alcuni passaggi come se si trattasse di una favola, dove la sua iniziale ingenuità e incoscienza, con gli slanci e i sogni tipici di quell’età, a poco a poco cede il posto a una maturità che affiora in seguito alle tante esperienze traumatiche e dolorose e all’assunzione di responsabilità in un momento altamente drammatico, dove, tra le altre cose, si comprenderanno le ragioni del titolo voluto da Garrone per questa sua ultima fatica.
Tra gli sceneggiatori, accanto al nome dello stesso Garrone, di Massimo Gaudioso e Andrea Tagliaferri, compare quello di Massimo Ceccherini (proprio lui, il comico fiorentino!). Un nome che in realtà non dovrebbe stupire più di tanto, dal momento che Ceccherini nel 2019 aveva già cosceneggiato assieme al regista romano Pinocchio, oltre a interpretare la Volpe (uno dei personaggi più riusciti e gustosi del film, col divertente tormentone “spizzichiamo”). È quantomeno doveroso menzionare il grande lavoro svolto dal veneziano Paolo Carnera, uno dei nostri più valenti direttori della fotografia, collaboratore abituale di Mario Martone, Stefano Sollima e dei fratelli D’Innocenzo, capace d’imprimere calore alle immagini e di renderle suggestive e di grande impatto.
È un film urgente, necessario – termini che non ci aggradano particolarmente e di cui spesso e volentieri si abusa senza ritegno alcuno – Io capitano? A dircelo sarà il tempo e soprattutto il pubblico, con la sua volontà o meno di recarsi in sala per assistere a un’opera su una tematica che in pochi – diciamolo senza ipocrisia – hanno ancora voglia di dibattere e affrontare visto il bombardamento mediatico che va avanti da lustri con modalità piuttosto sterili e superficiali. Un tema scomodo e spinoso, utilizzato in modo cinico se non spietato, strumentalizzato a colpi di slogan per decerebrati dalla nostra politica (quantomeno dalla nostra peggiore politica, quella che attualmente
occupa in pianta stabile le stanze del potere). Garrone cerca di smarcarsi, di non essere banale e per farlo decide di non inserire elementi, personaggi o comparse occidentali, realizzando di fatto un film africano che d’italiano ha solo i nomi del regista e di una parte della troupe. Un’esclusione che già di per sé assomiglia a un’aperta e voluta condanna del mondo occidentale. È già da considerarsi il titolo con cui l’Italia proverà a concorrere all’Oscar al miglior film internazionale? Lo scopriremo solo vivendo, o meglio aspettando. Forse, più che essere convintamente bello o riuscito, Io capitano è un film importante per il cinema italiano e per Matteo Garrone che da Il racconto dei racconti e soprattutto da Pinocchio in poi sta cercando di rinnovarsi e di seguire nuove traiettorie, con una visione e una cifra stilistica diverse rispetto ai suoi lavori precedenti. È quasi inevitabile che così facendo incorra in qualche inciampo ma il suo cinema, vitale e irrequieto, continua a sorprendere.
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