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Non si esce vivi dagli anni ’80.

Cercare di trasporre uno dei romanzi più complessi e iconici del maestro del brivido è impresa rischiosa e titanica, a maggior ragione se ti chiami Andy Muschietti e sei appena alla seconda prova dietro la macchina da presa dopo aver esordito nel lungo quattro anni prima con un horror senza infamia e senza lode come La Madre, sviluppato dall’omonimo corto del 2008 che ti ha fatto conoscere a livello internazionale.
La gestazione del primo adattamento cinematografico di It, dal momento che quello con Tim Curry era una semplice miniserie televisiva dal budget piuttosto contenuto, è stata piuttosto lunga e travagliata. Inizialmente avrebbe dovuto dirigerlo Cary Fukunaga, coautore del primo script insieme a Chase Palmer, poi uscito di scena in seguito a inconciliabili divergenze artistiche con la New Line, la casa di produzione del film. Il nome del regista della prima stagione di True Detective figura comunque tra gli autori della sceneggiatura, segno evidente che la sua impronta è rimasta anche dopo le varie modifiche apportate al copione.
Il romanzo di Stephen King, con i suoi andirivieni e intrecci temporali, con la sua mole mastodontica che, tra le tante cose, racchiude al suo interno un doloroso e struggente coming of age, è difficile da ridurre e imbrigliare in un’opera cinematografica divisa in due capitoli (il prossimo dovrebbe uscire nel 2019) o in una miniserie tv da 180 minuti, come accaduto con la versione realizzata da Tommy Lee Wallace nel 1990. In anni come questi, dominati dalla serialità televisiva che sta contribuendo a saccheggiare a più non posso i libri di King fino ad arrivare al paradosso di ricavare una serie tv di ben dieci episodi da un racconto di un centinaio di pagine come The Mist (peraltro già trasposto mirabilmente da Frank Darabont nel film omonimo di una decina d’anni fa), forse sarebbe stato più opportuno dar vita a una nuova trasposizione seriale di almeno otto-nove episodi per rendere al meglio i molteplici aspetti, le sfaccettature, le trame e sottotrame di It. Si è optato invece per un film diviso in due capitoli – questo e il prossimo – che si pone da subito l’obiettivo di ridurre e semplificare, eliminando innanzitutto gli intrecci temporali tra passato e presente per dividere nettamente i due periodi storici in cui è ambientato il romanzo. Se in questo primo capitolo vengono narrate le avventure dei sette ragazzini, la banda dei Perdenti, impegnati a fronteggiare un’entità malefica che non appare soltanto nelle vesti del clown Pennywise, ma assume la forma delle nostre paure più profonde, nel secondo ritroveremo i protagonisti ormai adulti nuovamente impegnati a combattere contro il male e l’oscurità che affliggono da sempre la città di Derry e i suoi abitanti.
Oltre a eliminare gli andirivieni temporali, l’ambientazione si sposta dagli anni ’50, in cui si muovevano i ragazzini nel romanzo, agli ’80; una scelta strategica ampiamente studiata a tavolino per coinvolgere e attirare il maggior numero di spettatori possibile. Peccato però che chi ha vissuto quegli anni in prima persona, o li ha visti trasposti e raccontati in decine e decine di titoli, fatichi a ritrovarli in questo adattamento, nonostante qualche hit musicale inserita ad hoc e le ormai onnipresenti e inflazionate bmx. Se in Stranger Things, giusto per citare un “prodotto” recente felicemente ispirato all’immarcescibile e intramontabile immaginario degli anni ’80, la scelta e l’assemblaggio del cast risultano particolarmente azzeccate, non si può dire lo stesso del nuovo It. Dei sette ragazzini spicca unicamente la figura di Beverly Marsh, impersonata dalla magnifica e sorprendente Sophia Lillis, mentre i sei maschietti sono appena abbozzati, privi di sfaccettature e psicologie, compreso il Richie Tozier interpretato da Finn Wolfhard, già visto in Stranger Things nei panni di un personaggio ben scritto e ben delineato. Qualche intuizione valida e interessante si scorge: il clown crudele, malefico e animalesco ha qualche assonanza con Freddy Krueger (la saga di Nightmare è omaggiata con un palese riferimento al quinto episodio), la battuta su Molly Ringwald è più che godibile e gustosa, ma sono poca cosa di fronte alla mancanza di un quadro d’insieme, di un affresco, di una visione corale. Di questo It cinematografico si salvano solo alcuni momenti, come il promettente incipit o il primo ingresso dei ragazzi nella casa di Neibolt Street (una delle scene più riuscite ed efficaci del film), ma si fatica a intravedere una visione d’insieme lucida, compatta e coesa. C’è poca vita, poca sostanza, la produzione ha preferito puntare sul sicuro, confezionando un blockbuster di facile presa sul grande pubblico che non frequenta abitualmente il genere horror, scontentando gran parte degli estimatori del romanzo che speravano in un adattamento di maggior impatto e solidità, che riuscisse a catturarne e restituirne lo spirito e l’essenza.
Muschietti e il direttore della fotografia – il sudcoreano Chung-hoon Chung – hanno anche delle belle intuizioni e soluzioni visive, ma risultano fini a se stesse, non essendo sorrette da una efficace progressione narrativa. Ne risulta un’opera anonima, privata e depotenziata degli aspetti più forti e originali del romanzo di King. Immagino che nessuno si aspettasse di trovare gli elementi più “scabrosi” dell’opera dello scrittore, gli espliciti riferimenti alla sessualità dei ragazzi che avrebbero rischiato d’infliggere un pesante divieto ai minori di diciotto anni (che negli Stati Uniti si trasforma in un NC-17, vietato ai minori di 17 anni), ovvero un autentico suicidio commerciale per i produttori. Dunque, se alcuni tagli, modifiche e omissioni non stupiscono affatto, ciò che lascia perplessi e delusi è la quasi totale mancanza di scavo psicologico, l’esile e insufficiente caratterizzazione dei personaggi e le innumerevoli differenze sostanziali rispetto all’It letterario che in alcuni casi risultano abbastanza gratuite, se non incomprensibili (che senso ha trasformare in poliziotto il padre del bullo fuori di testa?). Se è giusto e corretto affermare che cinema e letteratura sono due forme artistiche profondamente differenti e non paragonabili, che operano su territori e ambiti diversi con linguaggi eterogenei, è altrettanto vero e sacrosanto pretendere e sperare che un regista provi a interpretare il romanzo che vuole adattare, filtrandolo attraverso la propria sensibilità e personalità, cercando di farlo suo e di restituirne la sua visione. Nel caso di questo primo capitolo di It purtroppo manca l’aspetto autoriale, siamo davanti a un semplice horror con qualche jumpscare ben assestato e nulla più.

voto_3

Boris Schumacher
Appassionato di cinema da che ne ha memoria, ha studiato Storia e Critica del Cinema a Firenze dove vive tuttora. Folgorato dal genio creativo di Stanley Kubrick e di Orson Welles, si autodefinisce un malato di cinema più che un cinefilo. Vero e proprio onnivoro, vede di tutto, dal cinema d’autore a quello di genere con un particolare occhio di riguardo verso l’horror e il thriller. Adora il cinema orientale, in particolare quello coreano, il cinema d’animazione (stravede per la Pixar e lo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki e Isao Takahata) e qualche anno fa è rimasto ipnotizzato e folgorato dalle opere del cineasta ungherese Béla Tarr. Scrive anche su Taxi Drivers, web magazine di cinema e cultura e Orizzonti di Gloria – La sfida del cinema di qualità. In passato ha collaborato con Cinemonitor e FilmVillage mentre su MyMovies ha pubblicato un approfondimento sulla serialità statunitense. All'inizio del 2012 ha creato Lost in Movieland, pagina facebook dedicata alla Settima Arte.