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Joker foto1

Il difetto originario.

Prima che la tragedia diventi commedia (o viceversa), Arthur Fleck è un uomo di questi anni. Ha un lavoro sebbene sia disadattato, bullizzato e seguito dai servizi sociali di Gotham City (che dati i tagli presto non possono più fare nulla per lui); è abitudinario nei sogni ad occhi aperti e nelle sue piccole manie, si prende cura della madre con cui vive e vuole farsi notare come stand-up comedian. Niente di eccentrico in fondo, è un nostro confratello con la sola particolarità di un inconsueto problema neurologico, una risata che non riesce a frenare e che risuona lugubre, a metà fra il ghigno, il rantolo e l’urlo lacerante.

Non ci sono creste autoriali nella storia sceneggiata dal regista Todd Phillips e da Scott Silver (The Fighter, L’ultima tempesta). Tutti i tasselli vanno felicemente al loro posto, compreso il modesto riferimento ai modelli di Re per una notte e Taxi Driver. E questa, com’è facile comprendere, è già una differenza rispetto al canone marveliano dei cinecomics ormai imperante: non ci sono linee che alludano ad altro (1) e non si fa neppure riferimento alla trilogia del Cavaliere Oscuro di Nolan che pure avrebbe potuto costituire un pungolo irresistibile per un dialogo a distanza. Di fatto, si “deludono” gli spettatori che hanno assistito in quest’ultimo decennio a sfrenate mitologie interdipendenti e significative di tutto (e lo dico all’infuori di intenti dispregiativi o polemici, sia chiaro). Di più: la direzione di Todd Phillips è tutto sommato niente altro che diligente (e qua e là pedante e timorosa di non essere abbastanza didascalica) e l’innesco è alquanto zoppicante: per superare lo stallo e rompere l’equilibrio iniziale ci vuole infatti una mediocrissima idea di scrittura che serve a mettere in qualche modo in mano ad Arthur una pistola fatale.

Tutto giudizioso o quasi allora, comprese le previste, possibili agnizioni e giravolte drammatiche di una trama costruita appositamente per spingere un povero aspirante comico ad ergersi a involontario simbolo della ribellione contro l’ordine costituito, la società e il predominio anche ideologico di plutocrati-politicanti come il miliardario Thomas Wayne (leggete pure Donald Trump)? Non proprio. L’interesse di Joker a giudizio di chi scrive sta più nella recita che nella fabula. Proprio perché non ci sono altrove potenziali, neanche quelli ironici dell’universo Marvel, il protagonista abita dentro la sua maschera prima ancora di indossarne una: mentre il mondo a inizio film sta impazzendo, Arthur Fleck è già in nuce il Joker che prova e riprova nello specchio il proprio passaggio nel mondo. Put on a happy face. Il racconto e il dramma sono accessori e il divertimento dei suoi spettatori a conti fatti pure perché l’uomo a cui Joaquin Phoenix dà egregiamente compimento (più che vita) non è né una vittima né uno sgradito sottoprodotto del sistema, bensì la perfetta incarnazione del tempo anche filmico in cui si situa; è l’attore che entra in scena per portare felicità a prescindere, come Fleck ripete presentandosi agli spettatori dei club. Niente più che un mezzo. Spinto ad essere differente (ma uguale a se stesso) per integrarsi secondo una molto contemporanea e per niente disincantata esaltazione dell’individualità, dell’istinto e dell’introspezione da pensiero positivo, Fleck ha già enucleato e interiorizzato messaggio e ruolo ed è pronto a portarli ovunque. Sarebbe assai esagerato vederci il Male con i noti corollari della banalità; più che altro è il difetto originario, la contraddizione non risolta e in seguito scambiata per sovraccarico del circuito. Ma proprio qui è il punto importante – e trascurato – del discorso: se un cinefumetto possa ambire ad essere più che intelligente evasione invece che dalle narrazioni seriali e ultramondane dei supereroi dovremmo capirlo dalla tentazione ad un determinismo edonico che resta fin troppo umano. E questo, ironia della sorte, lo si può trovare curiosamente in un film non molto originale e fatto soprattutto per alleviare la fastidiosa sudditanza della Warner-DC Entertainment nei confronti della sua grande concorrente.

(1) Coerentemente con l’idea produttiva di non inseguire la Marvel sul terreno dell’universo condiviso emersa fin dalla concezione del progetto.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.