L’ennesimo capolavoro di Scorsese.
Martin Scorsese, su un sito di cinema come questo, non necessita certo di presentazioni.
Si tratta però del caso raro di un autore venuto dopo la tradizione del cinema classico che, pur essendone un prosecutore, non vi rientra. Tutti i parallelismi che si possono o vogliono fare con un qualsiasi Howard Hawks o Samuel Fuller, vengono a cadere se si guarda l’eclettica globalità del suo corpus, che non include solo i film narrativi, ma anche corti e mediometraggi realistici, documentari musicali e serie tv, a volte firmate (come la lunga intervista a Fran Lebowitz di Pretend it’s a City), altre volte dirette solo in parte ma da lui patrocinate (la sottovalutata Vinyl). Ma essendo ormai parte integrante del canone e consapevole del ruolo che riveste all’interno del panorama del cinema mondiale, con ogni nuovo film narrativo Scorsese spinge a inevitabili parallelismi.
La consapevolezza del cineasta di avere ancora tanto da dire nonostante l’età, la sua volontà di combattere contro il cinema-luna park e di creare qualcosa di memorabile che vada oltre un content tra tanti altri, lo hanno spinto a dirigere film sempre più lunghi, a volte accontentando il proprio pubblico di riferimento con l’appoggio su espliciti refrain a cui è legato l’orizzonte d’attesa del suo nome, come nel caso di The Wolf of Wall Street o The Irishman (non che questo costituisca un difetto), altre volte con opere a lungo sognate e più personali (Silence su tutte). Quanto a Killers of the Flower Moon, speriamo che non sia un’opera testamentaria ma, come questa recensione vuole dimostrare, il definitivo e splendido atto della maturità nell’approccio alle sue ossessioni e ai suoi pattern autoriali.
L’inquadratura del treno ripresa da C’era una volta il West, la memoria del cinema di Anthony Mann o degli ultimi film di John Ford: c’è davvero troppo cinema in questi 200 minuti per non essere riduttivi nel parlarne, ma ciò che Scorsese prende dal genere western, oltre a svariati riferimenti iconici, ancora più dell’originale presenza di un particolare tipo di nativi americani quasi del tutto assente sugli schermi, è l’ambientazione selvaggia.
In Killers of the Flower Moon tutte le sue ossessioni autoriali sono al grado zero, e Scorsese semplifica il discorso accentuando il piano visivo (si vedano le lunghe inquadrature alle ombre nel fuoco; e mai in un suo film ambientato negli USA si era vista una tale insistenza sulla natura). Certo, anche Quei bravi ragazzi, Casinò o The Irishman erano parabole post-noir sulla consapevolezza che l’arroganza nel muoversi dentro la macchina capitalistica costituisca una distorsione del sogno americano: chi parte illecitamente dall’apice finisce per vivere una vita mediocre (o muore). Ma mentre i film suddetti si svolgevano in città, in una società pienamente disciplinata, il concetto di legge e dovere a Osage County è ancora di là da farsi, a dominare è l’anarchia individuale e solo l’entrata in scena dell’FBI pone un limite e una regolamentazione a una vita frenetica. Il personaggio di Ray Liotta in Quei bravi ragazzi viveva ogni attimo forsennatamente, qui è una città intera a farlo.
Nuovo è anche l’uso che Scorsese fa dei due attori principali. Se DiCaprio non è mai stato così stupido e redneck, De Niro ha sempre incarnato figure incentrate sulla nevrosi, nelle sue diverse declinazioni. A volte la discesa nell’abisso dei suoi protagonisti avviene lentamente assumendo proporzioni narrativamente drastiche (Taxi Driver, Toro Scatenato), in altre è celata dietro la mania del controllo (Re per una notte, Quei bravi ragazzi, Casinò). In Killers of the Flower Moon è ben nascosta dietro il calcolo e la manipolazione: è il personaggio di De Niro a manovrare DiCaprio (come dimostra la battuta finale di quest’ultimo), e mai l’attore italoamericano ha interpretato un ruolo così cattivo (ho rabbrividito alla battuta sul KKK, cito a memoria, come persone che hanno l’unico demerito di fare “troppo casino” e nient’altro), accentuato anche da una citazione letterale di Ethan Edwards, il protagonista interpretato da John Wayne di un film simbolo dell’ambiguità, Sentieri Selvaggi (“as sure as the turning of the Earth”). In Killers of the Flower Moon, entrambi i protagonisti sono metaforicamente affamati: De Niro di potere per ottenre il quale ricorre a qualsiasi mezzo (matrimonio o omicidio, poco conta, egli diventa la legge stessa essendo in grado a suo volta di manipolarla), DiCaprio di donne (come dimostra il primo dialogo tra i due) ed è proprio in questo suo punto debole che verrà manipolato. La presenza di Lily Gladstone, paragonata da Scorsese a Olivia de Havilland in L’ereditiera, mette poi in scena una serie di parallelismi hitchcockiani inaspettati: l’immobilità quasi minacciosa (qui, verso il maschio) come la governante di Rebecca, la cura che avvelena come il bicchiere di latte di Notorious. Con un meccanismo tipico del maestro inglese, il pubblico sa da subito che la donna è in pericolo e teme per lei, ma è destinato a essere spettatore impassibile, sempre dubbioso su quanto la vittima ne sia consapevole.
Costante dei film di Scorsese è sempre stata la persistenza della musica, quasi una colonna sonora utilizzata in guisa di compilation, sfruttando a pieno la banda sonora che a volte segna il mood della vicenda, in altri casi l’ambientazione. Qui, il costante accompagnamento opera del compianto Robbie Robertson fa in modo che la storia narrata non sia altro che un blues perpetuo, la narrazione di un fallimento dal momento in cui adottiamo il punto di vista degli yankees.
Non è un caso se vogliamo soffermarci su un elemento circolare: la prima inquadratura del film è un raggio di luce inquadrato fuori fuoco, dal basso, nel chiuso di una tenda (chiara metafora del selvaggio che comunica con Dio); l’ultima invece è una danza circolare, religiosa, un plongè dall’alto simmetricamente perfetto, quasi una Riefenstahl invertita di segno. Come a dire che la vera America è quella, che la sete di denaro dei bianchi è solo un momento passeggero destinato a svanire, una tappa infinitesimale rispetto al rapporto spirituale che i popoli di quella terra hanno con ciò che c’è di eterno, che la ricchezza data dal petrolio può solo permettere loro di abbellirlo.
Stando alla cinefilia onnivora di Scorsese, nella storia del cinema americano esisterebbe un solo altro film che ha raccontato le vicende dei nativi di Osage, ossia il propagandistico film a episodi The FBI Story (in Italia Sono un agente FBI, 1959, Mervyn LeRoy). Essi vengono mostrati razzisticamente come nient’altro che dei cafoni arricchiti. Dispiace sentire che la messa in scena delle riprese di questo film era, nella prima stesura, la conclusione del film di Scorsese. Questo però spiega solo in parte la persistenza del metacinema nel finale di Killers of the Flower Moon: oltre a marcare che quanto stiamo vedendo non è altro che la ricostruzione di qualcosa che è realmente accaduto, esso segna l’ennesimo distanziamento dal genere western, il cui periodo storico era troppo antecedente alla nascita del cinematografo. Come mostra lo stratagemma del finale, il racconto può avvenire solo tramite i media, imponendosi così come l’ennesima riflessione sulla memoria in cui la malinconia per tante vittime finite nell’anonimato assume sfumature ancora più dolorose rispetto a The Irishman. Senza ricorrere al de-aging, solo usando le immagini e la parola.
Sign In