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KOBE DOIN’ WORK

KOBE DOIN’ WORK

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Professionisti al lavoro.

Se Douglas Gordon e Philippe Parreno avevano messo in campo la bellezza di 17 macchine da presa per Zidane, un ritratto del XXI secolo (2006), Spike Lee quasi raddoppia e ne dispiega addirittura 30 per il suo documentario su Kobe Bryant ormai all’apice della carriera (nell’aprile 2008 stava per vincere il suo primo e unico MVP come miglior giocatore della Lega, nel 2009 e nel 2010 ha vinto gli ultimi due dei suoi cinque anelli di campione NBA). La decisiva partita di regular season è con i San Antonio Spurs del trio (allora come oggi) Duncan-Parker-Ginobili, anche se l’argentino non è in campo. Ma il significato sportivo del match è solo un dettaglio.

Cosa ha intenzione di catturare Spike Lee in un film che ai più potrebbe apparire un esperimento anonimo e un po’ faticoso, con i mille punti di vista delle diverse camere, i ragionamenti di Kobe che non smette quasi mai di parlare (tanto da essere egli stesso sorpreso di quanto parla), i brandelli della partita e il backstage nello spogliatoio dei Lakers? Verosimilmente non il carisma della stella NBA e pressoché nulla dell’uomo dietro il campione. Le azioni si susseguono rapide, il flusso di coscienza pure, i tagli di montaggio non danno tregua. La partita di Kobe Bryant non ha a che fare con il fatto agonistico quanto con il rapporto che si instaura tra la (le) macchina da presa e la materia trattata. Il corpo a corpo con il basket del cestista è analogo al lavoro del regista newyorkese con la sostanza del (fare il) cinema. Dietro un racconto di sport, c’è un professionista che ne riconosce un altro mentre, semplicemente, sta facendo il suo lavoro. Non Kobe workin’, ma Kobe doin’ work, la differenza è essenziale. Come un manager o un altro professionista, il numero 24 gialloviola svolge la sua attività con la massima diligenza, puntando soprattutto ad eseguire ogni cosa senza errori, ritardi o sbavature, e motivando i colleghi (i compagni di squadra e lo staff) a fare altrettanto, aspettandosi altrettanto.
È facile da comprendere: dati i fondamentali e stabiliti il campo da gioco e le regole, tutto sta nell’esecuzione. Bryant sottolinea che gli allenatori NBA non si preoccupano se gli avversari conoscono alla perfezione le loro chiamate e i loro schemi, il livello di scouting è tale nel campionato professionistico americano che avere segreti è impossibile, e in ogni caso durerebbero un battito di ciglia. La differenza non è in cosa si fa sul terreno di gara, ma nella velocità, precisione e perfezione dell’esecuzione, nella fluidità con cui i giochi vengono portati a termine (curioso che il concetto si applichi a puntino proprio agli avversari di Los Angeles nell’incontro, quegli Spurs che sono la squadra più “squadra” degli ultimi vent’anni). C’è il talento, l’estro individuale, ma nell’equazione è una variabile indipendente, non una costante. Kobe dice a un tratto che grazie al lavoro di squadra non è necessario che egli metta a segno montagne di canestri per vincere (cosa che come tutti sanno è sempre stato in grado di fare, non a caso ha marcato oltre 33.000 punti in carriera, terzo di sempre dietro Kareem Abdul-Jabbar e Karl Malone). Potrà pure essere considerato verboso, ma il film di Lee non è il tributo di un fan del basket, è invece la meticolosa ricostruzione della giornata di un lavoratore impegnato a dare il meglio di sé. Pochi highlights, tanta consapevolezza di dover fornire una prestazione in linea con gli standard e le attese.

A parte alcuni momenti griffati, Spike Lee si sforza di dare spazio solo alla complessità del discorso di Bryant, restituendo per quanto possibile l’enorme mole di lavoro che sta dietro un gioco, una squadra e un’organizzazione simili. Il sapere profuso è naturalmente molto specialistico e uno spettatore non appassionato di basket, che non conosca gli aspetti tecnici e non capisca bene il senso di termini quali pick and roll o triple post offense (attacco triangolo), faticherà a godersi Kobe Doin’ Work appieno. Però quello del documentario dell’autore di Fa’ la cosa giusta è un approccio intelligente, che ribadisce come il talento sia solo una (piccola) parte della prestazione di un campione di fama planetaria. Il resto è lavoro, costanza ed etica lavorativa (e quella di Bryant è leggendaria, come per altri campionissimi del basket NBA, da Michael Jordan a Larry Bird).

voto_3

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.