Un remake equilibrato e sensato.
Sembra proprio che non si esca vivi dagli anni ’80. Almeno al cinema. Sarà che quel decennio è stato così colmo di contraddizioni da generare cortocircuiti teoretici in qualunque campo di cui ancora oggi si parla; sarà anche che, essendo stato denominato “edonistico”, la cultura pop fondata sull’immagine proprio in quei dieci anni ha dato il massimo concentrandosi, appunto, sulla forma, sull’immagine, su un contenitore che oggi scopriamo assomigliare al contenuto: sta di fatto che dopo trent’anni e passa le ombre di un periodo così profondamente e apparentemente luminoso sono lunghe e toccano l’audiovisivo di oggi.
Child’s Play (come tutti i ripescaggi) era uno di quei prodotti fortemente identificativi, così tanto impregnati di atmosfere Eighties da riassumerli: diretto da Tom Holland su un’idea di Don Mancini, il film originale era un horror se vogliamo neanche tanto bello e spaventoso e che si portava dietro rimasugli letterari (Richard Matheson e i suoi soggetti per il cult assoluto Trilogia Del Terrore, bambole incluse), derive televisive (i pupazzi semoventi, da Jim Hanson e Muppets in giù), paccottiglia socio-politica (velata critica al consumismo) e il gusto per l’horror slasher suggerito e spiaccicato sullo schermo. Inevitabile il successo: per un film che paradossalmente trova il meglio piuttosto nell’intera saga che nelle singole parti, per riuscire a racchiudere tutto il sopravvissuto piacere camp, sconfinando dal gore al grottesco al surreale al comico, definendo un’icona horror più riuscita dei suoi film, Chucky.
Ed ecco che oggi Chucky ritorna, per mano di un regista che al suo attivo ha un horror bislacco e mediocre, Polaroid, uscito in patria un paio di anni fa e originato da un corto del 2015, ma da noi approdato in sala quasi contemporaneamente alla Bambola Assassina: insomma, i presupposti c’erano tutti perché uscisse fuori la prevedibile “porcata” estiva in salsa orrorifica. E invece no: perché già dall’inizio questo riuscito remake – chiamiamolo così, ma qui più che altrove era necessario il termine reboot – dimostra la volontà di volersi significativamente distanziare dall’originale, reinventando la mitologia del personaggio principale e adattandola perfettamente all’attualità, con uno spirito postmodernista equilibrato ma soprattutto sensato.
L’adattamento della Bambola Assassina targato 2019 è così un horror inquietante che riflette su argomenti non banali, come i riti di passaggio adolescenziali, la crudele malvagità innocente dei bambini e la quasi contestuale perdita dell’innocenza: insomma un film che mette al centro i ragazzi ritraendoli finalmente in forma aderente alla realtà, senza demonizzare ma senza neanche declinare tutto in salsa rosa. Spazza giustamente via dal campo, quindi, ogni residuo di traccia metafisica (in origine ad animare la bambola era lo spirito di un serial killer, qui parliamo di un robot impazzito ai limiti della I.A.) e si accoda ai tanti film che costruiscono le trame sulle derive delle moderne tecnologie digitali: inevitabile che si snodi in maniera totalmente imprevista, con colpi di coda del tutto differenti rispetto all’originale. Come diverso è anche lo spirito iconoclasta: che se nel film di Holland alla fin fine si risolveva in un turpiloquio anche divertente, qui riporta ad un gusto del macabro non indifferente, specialmente se nel finale si aggiungono tocchi splatter che difficilmente vedremmo in un film di grande distribuzione. Inaspettatamente, quindi, Klevberg si inserisce nel fiorente filone dei rifacimenti, anzi, degli adattamenti horror, e lo fa con intuizioni felici, un gusto del raccapricciante un po’ sornione, una vena anarchica realmente eversiva. Causale o casuale la quasi contemporaneità con il bellissimo (e mortifero) Toy Story 4.
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