La luce e le sfumature.
Il genere, per Guillermo Del Toro, non è un capriccio o una velleità, ma una vera e propria necessità espressiva. Dagli esordi, dalla Spina Del Diavolo, il regista messicano ha sempre saputo incanalare i suoi impeti d’autore attraverso le immagini buie e intrise di emotività oscura che portano ineluttabilmente le sue opere a classificarsi come horror o thriller: e non che le sue storie lo richiedessero apertamente, visto che in fondo parlano sempre dell’abisso umano, della emarginazione emotiva, della ricerca affannosa di un proprio posto nel mondo. Ma è il suo occhio che sa vedere solo attraverso le tenebre, e anche con Nightmare Alley, che ricalca il romanzo d’origine di William Lindsay Gresham allontanandosi dalla prima trasposizione su grande schermo ad opera di Edmund Goulding, si riappropria di una messa in scena stratificata, esteticamente strabiliante, che indaga la realtà con i mezzi che ha a disposizione.
Mai come in questo caso, poi, un suo film è la rappresentazione plastica dei suoi bisogni, delle sue ossessioni: l’ombra della Guerra, il dualismo tra Bene e Male, il percorso oscuro verso la salvezza, passano questa volta attraverso immagini densissime che nascondono mille sfumature di senso.
E se come dicono nel film “ogni numero ha un suo terzo atto”, Nightmare Alley è purissimo cinema: di cosa sono fatti, entrambi, di cosa parlano se non di illusione, mentalismo, spiritismo? Di richiamare quello che non c’è più, di ingannare lo spettatore rappresentando l’assenza, di presentare una bugia vestendola di verità: è in questo modo allora che Del Toro plasma i suoi contenuti, e restituisce l’America nel periodo di transizione tra la Grande Depressione e la Seconda Guerra Mondiale, una nazione già pronta ad immergersi nei sensi di colpa per trasformare il rimorso in rimosso. Ne La Fiera Delle Illusioni allora luci e ombre si mescolano in sequenze che sono veri e propri quadri, composizione pittoriche che non usano il colore ma sono colore così come sono forma e sostanza: senza dimenticare le suggestioni estetiche di un vero e proprio cinefilo, che utilizza senza mai copiarli Hitchcock, Lang, Fellini, Browning, in un tripudio noir che non ha paura di contaminarsi con l’orrore più sanguigno. Ed è proprio nella profonda unione che esiste tra forma e sostanza che emerge chiaramente come appunto il genere sia una necessità artistica.
In un’opera che poi oltre a mostrare sa anche suggerire e suggestionare (non è questo poi lo scopo della magia?): a tratti il racconto si disperde magnificamente nei suoi tunnel di paura, altre volte invece sembra fermarsi volontariamente un attimo prima dello svelamento, dell’epifania, della spiegazione la quale darebbe quel senso che invece è tenuto a trovare chi guarda, nello stesso momento in cui si illude alla fine che il regista confermi i suoi sospetti – mentre è chiaro che Del Toro porta l’osservatore a credere solo a quel che vuole lui.
Ma siamo anche nella prima metà del Novecento e la psicoanalisi mostrava il velo sottile che copre la realtà: ecco che allora solo il buio è nero, mentre la luce ha mille sfumature e viene declinata attraverso suggestioni edipiche e freudiane: Nightmare Alley è così un labirinto dei sensi che evoca la dimensione fantastica, ma mette in scena il più classico dei triangoli, tra prede e predatori che passano dalla fiera delle illusioni agli studi medici.
Una storia incredibilmente avvolgente, che spiazza fino all’ultimo colpo di coda. Se è solo la luce ad avere le sfumature, solo nella luce si possono nascondere le sottigliezze: se allora è solo il volto di Stanton ad essere sempre irrorato dalla luce, è anche il suo volto che può nascondere un cono d’ombra. L’abisso aspetta proprio dietro l’angolo. Ma anche la salvezza, dunque, è un’illusione?
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