Si parla tanto, e anche spesso a proposito, di “regia geometrica” e di registi appassionati della forma (ne abbiamo un tanto al chilo, capofila quel grosso fraintendimento che è Nicolas Winding Refn, almeno alla luce dei suoi ultimi lavori). Ma perché in un film la funzione “geometrica” funzioni e soprattutto abbia un senso compiuto, deve necessariamente essere collegata ad un impianto narrativo adeguato, per esemplificazione deve poggiare su una storia che abbia le stesse condizioni del labirinto: una strada non lineare che però ha un suo inizio e una sua fine ben collegati, pur se con diverse diramazioni. I film di Christopher Nolan sono tutti, dal primo – poco conosciuto, ovvero Following – all’ultimo – quel Dunkirk ora sulla bocca di tutti – costruiti in maniera meticolosa e maniacale sulla carta ancor prima di essere girati, sviluppando in maniera chiara ed esemplare l’idea alla base. Un po’ come accadeva con i film di Hitchcock (ed in questo, non in altro, sta la loro forte assimilazione, più che con Kubrick con il quale ha solo assonanze superficiali), il cinema di Christopher Nolan è cinema puro in quanto sviluppa l’elemento visuale e visionario dell’essere umano, concretizzandolo meravigliosamente in un’opera inaccessibile alle altre arti quando unisce tutte le sue risorse e possibilità (narrative, musicali, visuali).
Simmetrici, densi, complessi, tutti i suoi lungometraggi sono il risultato di un groviglio di livelli apparentemente slegati che si intrecciano mirabilmente risolvendosi nella grandeur propria dei grandissimi Autori, storie potenti sul piano visivo e sofisticate su quello narrativo.
Following può essere considerato una primissima e vincente sperimentazione, ma è con Memento che esplode la sua arte visionaria: l’idea alla sua base – ovvero un racconto frammentato in episodi, montati in ordine cronologico inverso e alternato, convergente verso il centro in una differenza totale tra fabula e intreccio – in pratica è il film stesso. La visione dello stesso film, infatti, se montato in maniera tradizionale (sì, ne esiste una versione così, ma non chiedete il perché) perde totalmente la sua forza espressiva e concettuale, dimostrando che i film del regista britannico hanno e sono in un’idea fortissima di base che regge tutto il film sia etimologicamente che strutturalmente.
E dal punto di vista emotivo sta qui, in questa costruzione paradossale, apparentemente incomprensibile ma sostanzialmente perfetta in sé stessa, l’epicentro del suo cinema: lo spaesamento sensoriale è talmente incisivo da levare il fiato, ne costituisce l’altitudine emozionale che soffia dentro ogni personaggio.
Il successivo Insomnia rende chiaro, in qualche modo, la sua missione concettuale ed emotiva (ovvero lo spaesamento sensoriale dovuto al sovvertimento delle coordinate temporali e cronologiche: il detective Dormer, uno straordinario Al Pacino, è completamente stravolto dalla giornata lunga sei mesi al Polo), ed è invece Inception che mette in scena, in maniera apertamente spettacolare e definitiva, le tecniche d’illusione del regista. Non per niente, lo stesso Nolan ha detto di aver tenuto in un cassetto lo script del film per un decennio, segno di come questo abbia segnato la ripresa, in qualche modo, di quel tipo di storia ora dichiaratamente nolaniana che fa del tempo, dello spazio e della loro distorsione un elemento essenziale, anzi il nucleo fondante delle sue opere. Certo, da Memento ad Inception passano proprio dieci anni: ed è logico che la poetica di Nolan sia cambiata e per fortuna maturata attraverso i suoi film – che passano anche per la sperimentazione fatta addirittura con un genere cangiante e metamorfo come i cinecomics, ovvero con i suoi primi due capitoli batmaniani -, è naturale quindi che quello che viene messo in scena diventi un vero e proprio labirinto tridimensionale in cui sogno e realtà si mescolano (non è peregrino l’avvicinamento con gli universi di Borges).
Non a caso lo si è detto “tridimensionale”: se con Memento l’intreccio era, come abbiamo visto, letterario e narrativo, con Inception si aggrovigliano insieme senza soluzione di continuità (e aumentando il senso di spaesamento dello spettatore) mondi reali e mondi della mente, mondi immaginati e mondi sognati, addentro nella psiche dei suoi protagonisti.
C’è un altro genio moderno che ha compiuto la stessa operazione, ovviamente con diversa sensibilità e declinandola attraverso una visione decisamente più cupa, ed è David Lynch, il quale però diversamente da Nolan non ha lo stesso approccio, mancando in lui l’elaborazione della simmetria e le complesse architetture ad incastro tipiche delle storie di Nolan, preferendo l’abbandono totale all’ondivaga flessuosità delle emozioni e del perturbante.
Inception fa germogliare l’essenza dell’ultimo Nolan: la perfezione del meccanismo cinematografico che diventa a tutti gli effetti “commerciale” ma nel senso più moderno ed e(ste)tico del termine.
“Commerciale”, con Nolan, è sinonimo di una scintillante ed efficiente fabbrica hi-tech che crea un prodotto perfettamente elaborato, senza però permettere che tutto questo elimini la componente emotiva ed intellettiva (quando non intellettuale), facendo del cinema di Nolan il miglior cinema possibile, ora.
Nolan sembra volere (coscientemente o meno) riscrivere il canone hollywoodiano che percepisce e definisce i blockbuster, rendendo i suoi film delle vere e proprie pietre miliari, dei punti di non ritorno non solo di un genere ma anche del cinema moderno.
Si pensi ad esempio, per chiarire la portata emozionale del blockbuster secondo Nolan, al finale di quello che, a parere di chi scrive, è il suo capolavoro massimo ad oggi, ovvero The Prestige: il colpo di scena conclusivo non è né gratuito né, tantomeno, telefonato, perché lo svelamento dell’elemento chiave di tutto ciò che è stato mostrato in precedenza è un’epifania che fa vacillare l’intera comprensione del film, ne giustifica le premesse e il senso ultimo, e contemporaneamente segna una verità talmente atroce da incrinare e stravolgere indelebilmente la percezione che dell’opera ha lo spettatore.
Il “sistema di valori” insito nel cosiddetto cinema d’autore scompare, schiacciato dalla tecnica narrativa applicata al meccanismo del cinema, dalla sottile intelligenza della trama e del costrutto narrativo, dalla complessità dei sentimenti messi in gioco. Trasformando queste opere in un nuovo tipo di cinema.
Proprio per tutto quanto detto finora, Dunkirk è profondamente, etimologicamente, ontologicamente distante dal classico blockbuster, classificandosi come un anomalo film d’autore con i mezzi economici e tecnici di un’opera mainstream.
Da una parte, Nolan non rinuncia – neanche potrebbe – alla sua ossessione per il Tempo, per lo Spazio e per la loro distorsione; anzi utilizza per le sue ossessioni la confezione da blockbuster, approfittando dell’enorme budget a disposizione che quindi, a sorpresa per i nostri tempi cinefili, viene utilizzato per mettere in scena un’idea di cinema, di storia, di mondo.
Lo scorrere del tempo, le sue deviazioni, le sue possibilità, sono gli elementi che Nolan, divertito e attento, studia con le infinite variazioni del suo cinema: il Tempo in Memento è il nemico, in Interstellar è il messaggero, in Inception un ostacolo; lo Spazio è invece il mezzo per bypassare le difficoltà della trama. Dunkirk, da alcuni non proprio in modo pertinente definito il “miglior film di guerra di sempre”, non fa eccezione, e allora racconta l’impresa militare britannica dividendosi in tre diverse linee temporali.
Dunkirk è cinema puro, che utilizza il genere per parlare e mettere in mostra soltanto sé, l’immagine: e in questo senso non è propriamente un film di guerra (che viene mostrata, ma senza nessun’enfasi), neanche solo d’azione (tutto quello che succede viene elaborato, filtrato dallo sguardo e dal pensiero dello spettatore che deve incastrare a dovere i vari frammenti temporali), e non è neanche un film di dialoghi (quasi del tutto assenti, se non per far scivolare oltre la necessaria contestualizzazione storica: non c’è nessuna backstory dei personaggi).
Addirittura, potrebbe essere assimilato ad un musical o giù di lì, per come le musiche – di Hans Zimmer – siano un necessario supporto alla visione, scandendo il tempo e addirittura il ritmo delle immagini, mettendosi alla fine al centro dell’esperienza audiovisiva.
Lo Spazio.
Terra, mare, cielo: una settimana per la terra, un giorno per il mare, un’ora per il cielo. Sono queste le proporzioni cronologiche dei tre segmenti narrativi, uno che scivola lentamente dentro l’altro. Finché l’unità di tempo, luogo e azione esplode definitivamente in mille frammenti a tratti convergenti, a tratti sovrapposti, tutti tesi a formare un enorme puzzle organico perfettamente compatto dal punto di vista strutturale e stilistico. E intanto Nolan decentra il racconto, eliminando gli eroi e immedesimando l’occhio di chi guarda attonito in più punti di vista, e questo senza che “il cattivo” si veda mai.
Il film parte con una delle (diverse) sequenze più iconiche, che probabilmente resterà nella storia: un soldato in fuga, e davanti a lui tre soluzioni: la via dell’aria, quella di terra, quella di mare.
Ed è un gioco perenne al ribasso, materico e metaforico, con l’inabissamento graduale dei tre punti di vista. L’aereo, che gradualmente vola sempre più in giù; le navi, che ad una ad una affondano; la terra, che alla fine sporca tutti e tutti sommerge. Mai come in Dunkirk l’esperienza della guerra diventa totalizzante eppure così assente nelle tipiche connotazioni a cui il cinema ci ha abituato: il nemico non si vedrà mai, le strategie non verranno mai spiegate, ma c’è solo il protagonista e la sua lotta per la sopravvivenza. In Dunkirk conta solo l’uomo, la sua speranza, la sua forza; e il Tempo che inesorabilmente corre via.
Il Tempo.
Ancora una volta, è l’uomo contro il tempo. Con una misurazione differente per ogni parte della storia. Ma con un’unica unità filmica, che quindi lo comprime aumentando lo spaesamento e la diversa percezione che del tempo stesso lo spettatore avrà.
È con Dunkirk che Cristopher Nolan compie la sua azione suprema, sintetizzando il suo linguaggio, mettendo al centro della storia e della Storia l’uomo, comprimendo il Tempo e trasformandolo da nemico in alleato; e insieme allo Spazio lo fa diventare motore primo della narrazione.
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