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LA QUATTORDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

LA QUATTORDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

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Le cose belle andate via.

Secondo il calendario liturgico, il Tempo Ordinario è quel periodo dell’anno liturgico della Chiesa Cattolica e di altre Chiese cristiane che copre la parte dell’anno nella quale non ci sono tempi forti: nel rito romano, va dal lunedì dopo la domenica del Battesimo del Signore all’inizio del Tempo di Quaresima. Le parole dell’Evangelo di questa domenica spiazzano certe logiche ecclesiastiche che a volte, perché il messaggio religioso passi, si sforzano di essere essenziali, moderne, efficaci: è un po’ una certa prassi ecclesiale depauperata e svenduta alle logiche di mercato di gradimento, di efficienza a tutti i costi.

Probabilmente, il (bellissimo) titolo del quarantatreesimo film di Pupi Avati – anzi, sessantatreesimo se si contano anche le produzioni televisive, spesso e volentieri ottime: cifra gargantuesca e impressionante – è stato scelto dal regista solo perché in quel giorno ha sposato la donna della sua vita, la sua attuale moglie. Eppure, a voler leggere non solo tra le righe ma anche oltre, proprio quella durezza di alcuni messaggi religiosi, che al di là di ogni soggettività spirituale vanno rispettati e sono da rispettare, è lo specchio e la metafora del cinema di Avati: indefessamente rivolto all’interno e all’esterno, incurante delle mode e delle voci di corridoio, ben saldo nel suo universo poetico.

Perché è dal 1968 che Pupi Avati ci mette davanti al suo privato vendendolo come pubblico: probabilmente solo lui (con pochissimi altri: a memoria, forse Nanni Moretti e Marco Bellocchio) ha sovrapposto l’immaginario cinematografico con quello privato e culturale, partendo cinquantacinque anni fa proprio da lì, dalla religione, dalla spiritualità che mostra l’altro suo lato fantasmatico e pauroso intriso di ombre terrificanti con Balsamus, L’Uomo di Satana.

C’è insomma una tensione, nel regista bolognese, tra immanenza e spavento, che si risolve in un senso di religiosità personalissimo e vertiginoso: da La Casa Dalle Finestre Che Ridono (1976) a Bix (1991), da Magnificat (1993) a Dichiarazioni d’Amore (1994), da L’Arcano Incantatore (1996) a Gli Amici Del Bar Margherita (2009), il cinema di Avati gira sempre meravigliosamente negli stessi luoghi dalle stesse coordinate emotive. Bologna, la chiesa, il ricordo, la malinconia, il volto doppio della realtà, lo spavento di un Aldilà che si rivela nelle maniere più paurose.

La Quattordicesima Domenica Del Tempo Ordinario parte da un piccolo chiosco di gelati di una Bologna che non c’è più, va avanti veloce nel tempo, torna indietro e ancora avanti, e poi si ferma indietro, sullo stesso chiosco di gelati. Eppure tra le due immagini di inizio e fine, pur se identiche, c’è un abisso di emozione: perché quando la voce over racconta l’ultima sequenza, il groppo in gola è inevitabile, e tutto il fardello di tristezza perchè “le cose belle sono andate vie” crolla addosso allo spettatore, travolgendolo.

Avati è un caso quasi unico nel nostro cinema: a 84 anni suonati, continua ad avere una leggerezza di tocco invidiabile, muove la macchina da presa come solo lui sa fare e coordina ogni elemento della storia per arrivare alla fine a dare quella forma, quel colore, quel sapore che vuole lui. Infatti non sono tanto – anzi, non solo – le immagini a far capire subito che stiamo guardando un film dell’autore di Regalo di Natale: è il suono, è quella tinta pastello, è l’insieme di gusto sinestetico che immerge in un universo di riferimento ben preciso che ha i suoi codici e le sue caratteristiche precisissime, delineate e riconoscibili tra mille.

Che poi Lodo Guenzi accanto ad Edwige Fenech sfiguri poco importa: la DueA Film è famosa per dare nuove prospettive ad artisti che non erano attori (o quantomeno, non attori bravi) e che sul loro set lo diventano. Se allora l’ex Giovannona Coscialunga acquista e anzi mostra una profondità di sguardo e di intensità alquanto inedita e inaspettata, e se riguardo a Massimo Lopez ci si accorge di non aver mai saputo di volerne invece molto di più su grande schermo; del frontman de Lo Stato Sociale si poteva fare tranquillamente a meno, limitandosi egli ad una performance senza picchi e con qualche strafalcione espressivo.

Ma ha davvero poco senso fare le pulci al film: perché è difficile trovare una storia raccontata con la stessa delicatezza e con lo stesso trasporto, così come è difficile trovare un regista che sappia ancora mettersi in gioco con leggerezza e umiltà, spaziando dalla grandeur di Dante (nel quale aveva anche saputo immettere sottopelle addirittura una dimensione horror) alle piccole dimensioni di una storia di provincia, un ricordo di un amor fou che non lascia segno se non nella memoria di chi l’ha avuto ma ormai non lo cerca neanche più.

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Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.