La conferma di un grande talento.
Quando la guerra finisce le cose tornano alla normalità, si suole ripetere con ottimismo nella saggezza popolare. L’opera seconda di Kantemir Balagov dopo il potente Tesnota (uscito colpevolmente con due anni di ritardo in Italia) ci mostra nella Leningrado post assedio del 1945 che non è così. La vita stenta a ripartire, la distruzione e il dolore avvolgono e stritolano ancora cose e persone. E non si tratta di devastazioni e macerie soltanto materiali, ma di qualcosa che si spezza e rovina dentro. Tutto è ancora peggiore perché alla fine del conflitto la speranza raggiunge la sua acme, ma lo fa solo per venire presto frustrata.
Il primo piano del ventre di Masha, squarciato e ricucito dopo parti e aborti, ne è la testimonianza. L’impossibilità della ragazza (dapprima da lei negata e rifiutata) di avere altri bambini è il simbolo di una rinascita che non c’è e che è tutta da conquistare. Le sequenze iniziali nell’ospedale servono a generalizzare il discorso, come dimostra anche la storia di Stepan, ormai destinato a un’esistenza solo accessoria, infelice, disgraziata dalle menomazioni subite a seguito dei combattimenti. La vittoria militare ha offuscato nella sua prosopopea i drammi senza fine degli uomini. E ancora di più delle donne.
Oltre i temi che lo compongono, La ragazza d’autunno (che brutto titolo) è però innanzitutto un film che conferma le straordinarie doti registiche di Balagov, il quale costruisce il suo nuovo lungometraggio sui primi piani: i molti close-up fissi sui volti di lya e Masha favoriscono infatti la partecipazione emotiva al dolore e immergono senza respiro e senza distanza lo spettatore in una storia di corpi martoriati, di malfunzionamenti, di vuoti e di assenze di cui è specchio in primo luogo lya, soggetta a irrigidimenti che la “congelano” improvvisamente. Vuoti e assenze (sono “vuota dentro” ripete lya dopo che il suo tentativo di rimanere incinta è fallito) che si rincorrono e precipitano uno dentro l’altro. La sterilità di Masha, ormai una sorta di contenitore vuoto disperatamente alla ricerca di una nuova possibilità di vita, origina infatti dall’assenza improvvisa di lya in quella che è una delle scene più dure del film: ma la “giraffa” (così è chiamata la spilungona bionda anche nel titolo internazionale Beanpole, per quanto il titolo russo alluda invece alle scarse capacità della ragazza) è poi chiamata a cercare una pienezza alternativa per ridare un’opportunità al sogno dell’amica di generare la vita.
Il film, che a prima vista potrebbe dare la sensazione di bloccarsi qui, su questo rapporto morboso e straziato di dipendenza e sfruttamento amicale, ha però in posizioni speculari anche due protagonisti maschili che vengono presentati di fatto in funzione e nel mero riflesso del principale legame e dramma tutto al femminile. L’uno, il medico, chiamato a dare corpo alla maternità “per procura”; l’altro, il giovane e timido Sasha, che vorrebbe sposare Masha e formare con lei una famiglia.
Ogni elemento è molto calibrato ed esemplare, si potrebbe a ragione arguire. Ma la forza dell’opera di Balagov non consiste solo nel bilanciare la vicenda dal punto di vista simbolico e della costruzione dei personaggi. L’uso dell’illuminazione e del colore nelle dominanti del rosso e del verde garantito dall’ottima fotografia della giovane Ksenija Sereda concorre a definire la peculiare atmosfera del film, intima, laconica e malata. La regia sa però anche sorprendere, come nella sequenza della presentazione di Masha alla famiglia di Sasha, quando improvvisamente si esce dalla miseria degli spazi cittadini di Leningrado e si atterra nell’imprevedibile altrove rappresentato dai lussuosi ambienti della villa dei genitori di Sasha: il repentino contrasto è rafforzato dal bianco intenso della neve e del cane della madre di Sasha e fa da introduzione a un altro conflitto (sempre tra due donne con due maschi in posizione passiva) che è caratteriale, psicologico e – nell’Unione Sovietica del socialismo reale – marcatamente di classe, come a confermare lo scacco oltre ogni ottimismo di facciata per la rinascita dopo il 1945.
Sul piano stilistico, Balagov sembra dunque confermare le modalità dell’opera d’esordio: la closeness (titolo internazionale di Tesnota) ai personaggi si apparenta all’abilità di schivare il formalismo in cui potrebbe incorrere un giovane cineasta così dotato e nel quale è talvolta rimasto un po’ impigliato il suo connazionale Zvyagintsev. È solo al secondo film e non ha ancora trent’anni, ma quanto fatto fino a qui ci pare abbastanza per scommettere su di lui come un nuovo Maestro.
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