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Stanza foto4

Il cinema come specchio spietato.

La cognizione del dolore, scriveva Gadda. Il suo sinonimo per immagini  lo coniuga Nanni Moretti. Da tempo (Palombella rossa) lontano dal suo alter ego Michele Apicella (nei film precedenti La stanza del figlio, Caro diario, e Aprile, sostituito dalla diretta autobiografia del regista) Moretti ne decreta con questo film la definitiva scomparsa.

Attraverso la rappresentazione della morte di un figlio, il regista romano dice addio a quel personaggio non riconciliato, irriducibile alle ragioni del visibile, sempre altrove pur di non piegarsi alle esigenze della “normalita”. La morte del figlio, dunque, come morte di un sé precedente, di un figlio cinematografico oramai ingombrante perché inconciliabile con nuove urgenze da raccontare e in antitesi con la rinuncia  ad un’idea forte del mondo cui anche Moretti, come tanti intellettuali di sinistra in crisi post ’89, sembra essere approdato, come palesemente confermato anche dal più recente Habemus Papam. E queste nuove urgenze sono quelle di un padre, (anche nel precedente Aprile, Moretti metteva al centro della sua autobiografia la nascita del suo primogenito) che a quasi cinquant’anni sente di dover mettere in scena le sue angosce esistenziali. Ecco allora, ancora una volta, l’immergersi morettiano in una stanza (paradigmatiche le precedenti di Ecce bombo e Sogni d’oro) ma stavolta dichiaratamente altrui, di un figlio adolescente, i cui oggetti e gusti personali, vedi i dischi, sono al padre psicanalista (lo stesso Moretti) significativamente sconosciuti. E’ il dramma la nuova urgenza comunicativa dell’artista romano. La paura di uscire dalla serenità iniziale a cui la famiglia Sermonti sembra solidamente ancorata. E il “sembrare” è fortemente manifestato da quel senso di perfetta precarietà dell’esistente con cui Moretti si approccia al quotidiano di un padre, una madre e due figli. Lo scorrere lento della vita, dalla collettiva colazione mattutina, alla convocazione del preside ai genitori per un problema creato in laboratorio dal giovane figlio Andrea, allo jogging mattutino del padre, tutto è impercettibilmente ma fortemente mosso dall’ansia improvvisa che lo spettatore avverte nello spintone ricevuto dalla madre Arianna al mercato, nell’equilibrio precario della figlia sul motorino o nell’allontanarsi, in un inquietante silenzioso campo lungo, della barca su cui si trova il figlio che da lì a poco perderà la vita in una immersione.

Come dire, il nucleo familiare c’è, è lì, ma sono i singoli a comporlo e il destino dei singoli si muove indipendentemente dal gruppo, che potrà soltanto registrare, impotente, ciò che accade. E l’accadere, il destino, ci insegna Kieslowski, è del tutto imponderabile sia nel bene che nel male, dunque connaturato all’uomo e al libero arbitrio delle coincidenze della vita. E proprio al primo episodio, dedicato al caso, del Decalogo del grande regista polacco, Moretti sembra ispirarsi nel mettere in scena la fatale telefonata domenicale con la quale il paziente in crisi Silvio Orlando convoca urgentemente a casa sua lo psicanalista, impedendogli, come era stato deciso, di fare jogging con il figlio, destinato così a morire in mare. L’elaborazione del lutto riempirà adesso tutte le stanze del film. Quella del figlio conserva la sua sostanza attraverso un mutevole apparire (la visita della ragazza ultimo segreto amore estivo del giovane, i suoi vestiti toccati dalla madre, la sua musica ascoltata dai familiari in uno di quegli inutili ma inevitabili tentativi di ritrovarsi con chi non c’è più) quasi un flash-remake della Camera verde truffautiana. La stanza per le sedute del padre-psicanalista si annulla nel fondersi oramai intollerabile di sofferenze non più solo dei pazienti. La stanza da letto si svuota per l’insostenibile condivisione del dolore di padre e madre. La casa-stanza morettiana, così come in Bianca, diventa dunque teatro di un dolore universale e indicibile. La stessa scelta di mettere in scena un padre che è anche psicanalista, arrivando così al culmine di una sofferenza irreparabile, conferma la tendenza di Moretti ad arrivare al confine del possibile narrare. La stanza del figlio è un film che va al di là di ogni ambiguità nel momento stesso in cui disegna freddamente una realtà assoluta dell’esistenza. E’ il mare, che serenamente fiancheggia lo jogging rilassante del padre in apertura del film, ad accompagnare nel finale la passeggiata sulla spiaggia, incerta ed inerziale, quasi bressoniana, di una famiglia oramai definitivamente segnata e mutata. Il mare, dove il figlio ha perso la vita, diventa così un unicum dalle molteplici facce, è la vita stessa che nel suo scorrere cambia forma e colore senza che nessuno possa arginarla. Proprio per questo il film di Moretti è guidato da un solo leit-motiv: la solitudine dell’uomo dinnanzi alla sofferenza. L’incondivisibilità del vuoto, dell’assenza, diventa elemento pregnante dell’esistenza dei familiari “sopravvissuti” al dramma. La grandezza del film sta nel suo estremismo, in quella percezione del dolore che non può uscire dall’esperienza individuale. Come nei film di Ozu, dove il crudele ma inevitabile rarefarsi dei rapporti familiari diventa paradigma universale della condizione umana, anche nel film di Moretti tutto sembra virato verso una forte simbologia esistenziale. Il pullmann, che alla fine del film si allontana con a bordo la ragazza del giovane scomparso, diventa per lo sguardo del padre ennesima occasione per pensare a ciò che il figlio non potrà più vivere. Questa visione laica della realtà è il centro di un film che parla di morte solo per regalarci la piena consapevolezza della vita come momento unico e irripetibile. La vita è dunque per Moretti grandezza e limite nello stesso tempo. Tutto quello che viene prima e dopo è soltanto silenzio. Come quello che incombe nello studio del padre-psicanalista, muto dopo la tragedia dinnanzi ai suoi pazienti con cui condivide adesso un dolore indecifrabile. Tutto è così precario, eppure profondamente importante e prezioso, da non capire più come muoversi e dove andare. La stanza del figlio è dunque un film spietato e commosso, sommesso e deflagrante, dentro il quale Moretti ci catapulta con la sola certezza dell’importanza di conoscerci più a fondo.

voto_5

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Danilo Amione è docente di Storia del cinema e del video presso l’Accademia di Belle Arti di Ragusa, città dove è nato e risiede. Storico e critico del cinema, ha partecipato come relatore a convegni e dibattiti su film e autori ed ha scritto per varie testate cartacee e online quali La Sicilia, Pagine dal Sud, Primafila, Cinemasessanta, Scenario, Sipario, Rapporto confidenziale, A Sud’Europa, Articolo 21, Diari di Cineclub, CiaoCinema, Together, Carte di Cinema.