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L’arte oltre le etichette.

Una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile: la citazione viene da Uno, Nessuno e Centomila, romanzo fondamentale per capire Luigi Pirandello. Che attraverso le sue opere delinea in maniera precisa e lucida l’uomo del Novecento e la sua crisi, la crisi dell’io, secondo la quale l’uomo è composto da frammenti che ogni volta si uniscono e associano in maniera differente, dando vita così a tante personalità e a tante visioni della vita. Un vero e proprio labirinto della logica, uno specchio che restituisce un’immagine in frantumi nei quali i vari riflessi sono nello stesso tempo reali e non.

Ci voleva allora un regista colto che conoscesse bene teatro e cinema per unirli – raccontando parte della vita di Pirandello – in maniera così vivida, gioiosa, energica, moderna eppure classica; decidendo di raccontare la genesi di uno dei drammi cardine della cultura del Novecento – e oltre -, ovvero Sei Personaggi In Cerca D’Autore, unita alla storia corriva e surreale di due becchini che si trasformano in storia. Roberto Andò decide, nella più illustre delle tradizioni pirandelliane, di intraprendere la peraltro non facile strada del metacinema (e ovviamente del metateatro): perfettamente conscio che la strada della compiutezza sarebbe dovuta essere lastricata da un’autoironia essenziale, fondendo in un unicum inscindibile realtà e fantasia, circostanze inventate e fatti realmente accaduti come la tumultuosa prima al teatro Valle, per dare una veste inedita al momento creativo che viene rappresentato in una girandola di invenzioni che lavora su tutti i piani del racconto, intrecciandoli indissolubilmente.

In tal modo, La Stranezza diventa un film straordinario e sorprendente, con un cuore inaspettatamente inquieto e inquietante e uno svolgimento sinusoidale, reso in maniera magnifica da un tris d’attori d’eccezione in ogni senso: perché se Toni Servillo sarebbe un Pirandello incredibile anche recitando con il pilota automatico, Valentino Ficarra e Salvatore Picone sono la vera sorpresa (ma poi neanche tanto) del film, in un triangolo isoscele che alterna e scambia di continuo i ruoli di capocomico e di spalla. I percorsi intrapresi sono lineari: c’è la traccia di uno spettacolo che nella sua rappresentazione si avvinghia alla vita reale mentre si mutano a vicenda, e in parallelo il tentativo di mettere in scena la nascita di un’idea, di una stranezza.

Questa trama nitida viene puntellata da una sequenza continua di splendide intuizioni, che non solo rendono il testo drammaturgico più vivo, ma restituiscono in pieno i colori e i sapori della Sicilia di inizio Novecento, immergendo così la narrazione nel tessuto storico dove le idee e le teorie di Pirandello si incistavano dando vita all’età moderna.

La scrittura de La Stranezza, dello stesso Andò insieme a Massimo Gaudioso e Ugo Chiti, è preziosa e intelligente nell’unire concetti e metafore in maniera lieve e affascinante, dando profondità alle emozioni e cesellando i ruoli: non solo quindi Arte e Vita, ma anche Teatro e Morte con la forza dell’impeto creativo che riesce a superare le barriere dell’esistenza (non per niente i due protagonisti sono due becchini che scrivono per il teatro). E se il nucleo del pensiero pirandelliano era allora la molteplicità inevitabile della realtà, La Stranezza lo riporta fedelmente inserendo qua e là squarci alla logica: fino al gesto narrativo estremo, ovvero quello di mettere lo spettatore nelle condizioni di chiedere se ciò che si è appena visto è realmente accaduto o meno. Ma non solo: in un triplo salto carpiato, nel momento stesso in cui ci si fa questa domanda, germina quella successiva, sul significato di quell’avverbio, realmente, in relazione al cinema, al teatro, alla (propria) identità, alla vita.

Per arrivare alla fine alla frantumazione definitiva dei concetti di arte alta e arte bassa, includendo nella – inutile – distinzione televisione e cinema, dramma e commedia, tragico e comico: ecco che allora torna a risplendere di nuova luce la suprema intuizione di Andò, quella di affiancare un duo nato dal cabaret televisivo ad un attore di blasonata provenienza (anche) cinematografica. Mettendoli coraggiosamente a confronto e riuscendo a far risaltare la bravura di tutti, mostrando ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, come certi steccati hanno ragione di esistere solo nelle menti più ristrette. E che l’arte non può avere etichette: perché è solo una irripetibile, magnifica stranezza.

voto_4

Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.