Tu non hai visto niente ad Auschwitz.
Si ha un bel dire che Jonathan Glazer, come altri prima di lui (il pensiero corre naturalmente a Il Figlio di Saul di László Nemes, ma si potrebbe ricordare anche Schindler’s List, con la scena delle docce), ha scelto di non rappresentare l’orrore dello sterminio nei campi di concentramento e che, perciò, l’orrore medesimo è fuori campo, immaginabile solo per i rumori, il fumo dei camini e le urla che dal luogo della morte arrivano di qua dal muro, fino alla villetta dove il comandante del campo Rudolf Höss vive con moglie, figli e domestici.
Si ha un bel dire, ma non è vero. L’orrore è in campo, eccome. Alla stessa stregua del potente Austerlitz di Sergei Loznitsa, la camera è infatti puntata sull’orrore di chi non vede, su chi è indifferente: nel caso del regista ucraino sui turisti svagati e dimentichi del luogo ove si trovano, nel film di Glazer sui burocrati in carriera autori dell’indicibile e sui loro congiunti, complici ipocriti, distratti e anestetizzati dai vantaggi della rimozione e dalle proprie banali cure quotidiane.
Ancora una volta, dobbiamo ripensare l’Olocausto. Non l’abbiamo visto, forse non lo scorgiamo nemmeno, né nei materiali di repertorio né nella congrua pattuglia di film che sono entrati dentro l’immane tragedia, dai documentari di George Stevens a Kapò di Gillo Pontecorvo e Shoah di Claude Lanzmann. Se non possiamo dunque vedere, se siamo così ciechi davanti ad Auschwitz e a ciò che esso può significare (all’inizio di La zona d’interesse lo schermo è nero, forse per spiegarci che entriamo in ciò che sta oltre la nostra percezione), forse possiamo allora cogliere solo ciò che è altro da un orrore così assoluto.
È il punto di partenza di Glazer che, sulla scorta del romanzo di Martin Amis, si dedica (perciò?) alla messa in scena dell’indifferenza assoluta, gelida, estrema di chi lo sterminio lo pianificò e praticò con fervore ed efficienza altrettanto estremi. Una pura entomologia dell’indifferenza che può suonare cinica e respingere lo spettatore, ma che a ben pensarci ha il pregio (e il vantaggio) di schiodare dall’ovvio anche lo sguardo caratteristico dei ben pensanti e ben intenzionati, aggrappati a un’idea retorica dell’atteggiamento da tenere di fronte al Male.
L’uso della camera fissa a mimare la “giusta distanza” del cronachista – qualsiasi significato si voglia darvi – viene così ad asciugare ogni pathos. Se ci fanno orrore questi personaggi (menzione d’obbligo per Sandra Hüller che a un certo punto addirittura rivendica il diritto/dovere borghese di poter continuare a crescere i figli in quel giardino dell’Eden che ha saputo creare dal nulla), se non possono non farcene, è per la loro imperturbabilità prima ancora che per le loro azioni. Cogliendo così la reale mostruosità della Shoah: non lo sterminio, ma la scientifica determinazione che lo originò, prova di una razionalità che sembra apparentare l’essere umano ad una creatura degli abissi, proprio quando egli esprime il massimo del suo acume.
Tanto più che Glazer ha il merito di variare: le carrellate che mostrano il movimento dei personaggi nel giardino, sullo sfondo del muro di cinta del lager, sono tanto evidenti da rasentare (almeno per chi scrive) lo shock visivo, la barbarie del punto di vista, inteso come tragica incapacità di cogliere le proprie limitazioni e insanabili contraddizioni (tanto che spiacciono abbastanza le dichiarazioni del regista alla notte degli Oscar, che ibridano e perciò banalizzano un superbo saggio di regia con discorsi ad elevato rischio di semplice propaganda).
Lo stesso scopo mi pare avere la vertigine, giustamente definita kubrickiana, del finale con il comandante Höss che pare proiettarsi e scorgere nel futuro, nei luoghi del museo di Auschwitz-Birkenau, le inservienti intente a pulire, forse quasi altrettanto ignare. Ma senza fermarsi. Tutti sanno tutto, ma nessuno capisce davvero. No, non abbiamo visto proprio niente ad Auschwitz, e forse che non abbiano visto nulla nemmeno coloro che lo hanno perpetrato è la cosa più sconvolgente di tutte, come la mancanza di una morale a cui appigliarsi.
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