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La maestria nel racconto.

A mio avviso c’è da fare un discorso preliminare sull’autorialità quando si affrontano i film di un regista come Nuri Bilge Ceylan. Discorso che potrebbe intavolare lo stesso ragionamento che vale – almeno in superficie – per un filmmaker come Mike Leigh (tra i tanti), che hanno in comune solo una modalità di proporsi. Quale? Diciamolo così: non si tratta di personalità registiche che lavorano sempre sugli stessi pochi punti (per restare all’esempio di Leigh, cos’hanno in comune Segreti e Bugie e Peterloo?) o i cui film possono essere considerati variazioni, superamenti, ampliamenti dell’identico solco: eppure (nel caso di Ceylan anche per riconoscibilità “regionale”) hanno una loro spiccata e inconfondibile impronta, una specie di andamento lento e man mano più vertiginoso, ma sempre affondato nei temi e motivi stabiliti all’inizio, come pittori che lavorano progressivamente la tela e ne fanno emergere un disegno sempre più compiuto. Un’affermazione che può apparire ovvia, tuttavia è premessa necessaria per non impantanarsi in questioni verbose sull’importanza della nuova opera dentro la filmografia dell’autore, e a discapito della coerenza interna del film considerato. L’albero dei frutti selvatici merita di essere goduto all’infuori di troppe speculazioni.

La nuova fatica dell’autore turco sembra iniziare all’opposto di come si concludeva I Vitelloni: mentre nel proverbiale capolavoro giovanile di Fellini il disilluso Moraldo decideva di partire, in L’albero dei frutti selvatici il sarcastico e un po’ sbruffone Sinan torna al paesello dopo gli studi universitari e la laurea, in attesa di affrontare l’esame per diventare insegnante e di sapere cosa fare con la sua vena di scrittore. Qui ritrova il padre, a sua volta insegnante di scuola elementare, un po’ sognatore e un po’ debosciato (ha debiti di gioco, ma non dà idea di preoccuparsene troppo), la madre sensibile e quasi rassegnata, una giovane e bella amica che ora sta per sposarsi e sembra già pronta a rassegnarsi a sua volta, qualche amico senza veri orizzonti. Nel modo in cui la macchina da presa segue Sinan che bighellona e vive i suoi giorni ancora indolenti, sullo sfondo di una regione che sta al limitare tra industria e campagna, tra modernità e tradizione (come si suol dire: ma non è il succo del discorso), il vero protagonista è il tempo del passaggio delle stagioni; è anzi ammirevole come Ceylan riesca a suggerire contrastati parallelismi tra l’autunno incipiente della prima parte del film e il progressivo tramonto delle certezze e dei desideri di gloria di Sinan. A tal fine la fotografia del fido Gökhan Tiryaki si destreggia nella luce, dosando gli squarci quasi bucolici senza permettere che il film ne sia inebriato e si faccia così estetizzante; e se Il regno d’inverno (che ritengo il vero capolavoro del regista, fulgida Palma d’oro nell’anno di Sils Maria e Foxcatcher) lasciava intendere un tratto più marcatamente intellettuale nel suo andamento, per L’albero dei frutti selvatici siamo in presenza di un’opera che fa filtrare l’ironia proprio nei segmenti più “impegnativi” sotto il profilo del “discorso”: mi riferisco ovviamente al dibattito con lo scrittore affermato negli spazi chiusi della libreria – che si conclude però per la strada con una ritirata e una fuga per danneggiamento di un manufatto (e l’incubo del cavallo di Troia dona una pennellata tra il surreale e lo sberleffo) – e alla discussione con gli imam che è viceversa ripresa con una pletora di stili e di movimenti di macchina, per renderla più ricca e frastagliata, ma in fondo per nulla estranea all’andar ramingo di Sinan e del film medesimo.

A volerlo fare, nella figura del giovane aspirante scrittore si potrebbe scorgere la crasi delle due figure al centro di Uzak, il film che ha reso noto Ceylan in Occidente: l’intellettuale e l’immaturo, il cinico e il semplice. La critica fa spesso riferimento a Cechov e non è sbagliato, fatti i dovuti aggiustamenti. Nell’altalena di emozioni, disincanti, frustrazioni e dibattiti che nulla muovono ma definiscono un clima più che altro interiore, Ceylan si conferma un magistrale cantastorie. Ma di storie sommesse, che vogliono sì insegnare ed educare, ma come l’arte e l’artista (sempre al centro delle riflessioni del film) devono fare, solo attraverso l’umanità dei personaggi, accendendo una luce nel limbo delle loro vicende e delle loro coscienze. Se poi si vogliono film più alla moda, pazienza. La marginalità di chi vuole prima di tutto raccontare non è cosa nuova.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.