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L’ANGELO DEI MURI

L’ANGELO DEI MURI

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La distrazione dal reale.

Sono tante le vie dell’horror. Ma conducono tutte, inevitabilmente, al centro del dilemma: il cuore umano e i suoi balzi, ferite, aneliti, scandali. Lorenzo Bianchini, nome periferico e poco conosciuto del cinema italiano, ha finalmente una produzione più strutturata (l’upgrade dalla distribuzione al finanziamento è della friulana Tucker di Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche, ben noti ai frequentatori del Far East Film Festival di Udine) e non la usa certo per un salto di qualità negli effetti speciali. Al contrario, se la critica sembra appigliarsi ancora a paragoni con gli autori di paura del nostro cinema (il nome più gettonato è quello di Pupi Avati per via del suo regionalismo, ma non mancano altri riferimenti a cominciare dal sempreverde Dario Argento), la sensazione netta è che un film come L’angelo dei muri sia impregnato fin nel profondo di quell’orrore interiore del quale si nutrono le pagine di Edgar Allan Poe.

Basterebbe il piano sequenza iniziale a certificare la finezza di scrittura e di impaginazione del regista udinese: la macchina da presa, più che attraversare gli ambienti di cui si compone l’appartamento (strutturato come un lungo corridoio, come un percorso da un punto di partenza a un punto di arrivo), sembra indugiare e cercare qualcosa. Come un sonar o come uno scandaglio, o ancora come una bacchetta di rabdomante che vibra in presenza di vita vissuta, di tenebre che hanno una loro densità, che non sono cioè pure marche o puro genere.

Il pericolo è di credere che ci sia solo mestiere nel ghost movie di Bianchini, di eccepire che la storia (non è originale ma si sa, come potrebbe esserlo?) si può intuire in anticipo in tutti i suoi snodi e sviluppi, di lamentarsi che tanto acume nella composizione sia al servizio di un horror “patinato” che fa della claustrofobia esibita la sua cifra stilistica quasi unica (e anche la sequenza che offre un panorama di Trieste dall’alto si presenta in effetti come un abbellimento non proprio necessario). Invece, L’angelo dei muri possiede una solidità che lo contraddistingue tra tanti prodotti consimili. Più che raccontare un’ossessione, sia pure in positivo, ossia quella per i luoghi e i fantasmi della propria anima, per i propri cari, per le proprie idiosincrasie, l’opera di Bianchini declina in altri (e direi anche più sobri) termini la lezione di tanti film, a partire dal Sesto Senso di M. Night Shyamalan: l’osservabile, il percepibile, lo scopico insomma, che si rivela come una distrazione dal reale, di qualsiasi cosa si tratti. Ancora, a qualcuno tutto ciò sembrerà solo la natura del cinema. Ma se anche si finisse per ricadere ancora lì, nell’eterno ritorno del cinema e della sua vastità e ricchezza di punti d’osservazione, per un film tanto piccolo sarebbe un segno di valore.

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Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.