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La prigione di Fabienne.

Catherine Deneuve è più che il fulcro del primo film internazionale di Kore-Eda Hirokazu; il personaggio di Fabienne Dangeville che la diva francese interpreta ne è il centro di gravità o, con altra metafora che viene di proposito ripetuta due volte a inizio film, una prigione celata dietro l’apparenza di un castello. Fabienne ne è consapevole, non fa nulla per smarcarsene: sa che la figlia Lumir vive nella sua orbita benché, come dice al domestico Luc in un momento cruciale, sia andata in America e si sia sposata per tentare di sfuggirle. La prigione è Fabienne. E tutti gli altri personaggi le vorticano attorno senza poter uscire dal suo raggio di influenza.

L’essenziale dell’opera è qui; se “la verità non è appassionante”, i camuffamenti e le parti recitate da Fabienne sono assoli d’attrice in cui si vengono a trovare senza scampo la figlia, il genero, la nipote e tutto il resto della sua famiglia allargata. Fabienne non si sente né madre né figlia (del resto in un dialogo veniamo a sapere che sua madre è morta quando era una bambina), nemmeno artisticamente: a un giornalista che la intervista risponde che non ritiene ci siano attrici più giovani in cui possa rivedersi e che non ha avuto vere ispiratrici. Crede persino che un’attrice ancora vivente sia già morta, e di essere andata al suo funerale. Un solipsismo che la pone su un altro piano, che determina la sua solitudine (anche di ciò è consapevole): ma una solitudine che è in grado di sopportare attraverso la perfezione della performance. A differenza del Joker di Joaquin Phoenix (altro film sulla recita), non è il mondo intorno a lei che la spinge a stare sempre sul set: discute spesso con Luc di copioni che non la convincono e che non vorrebbe accettare. La recita le è invece necessaria per il suo senso di controllo. Non vuole perdere mai. Perdere significa per lei non essere in condizione di resistere all’insensatezza e alle asperità della vita; perdere cioè il senso della sua identità di attrice di successo e calarsi nei panni di una donna con gioie e dolori come tutte le altre. Accettare la sua fallibilità e i fallimenti che l’esistenza comporta. Questo Fabienne non lo vuole, non lo sopporta, non intende prenderlo in considerazione. Il suo teatrino è la tenace difesa di una fortezza, in un film che ha molte implicazioni e meccanismi velatamente teatrali; si pensi all’apparizione dell’ex marito, che segue l’uscita di scena di Luc e della tartaruga con lo stesso nome dell’ex marito (che di fatto rientrano proprio quando sparisce il consorte): sorta di sottolineatura di sceneggiatura posta come un gioco con la nipote per la quale la nonna è una strega. E la recitazione non finisce qui se in pratica l’unico altro ambiente oltre alla casa in cui ha luogo l’azione (con l’eccezione del ristorante) è il set del nuovo film di Fabienne, Souvenirs de ma mère (altra sottolineatura di script).

Non è difficile immaginare che Kore-Eda, che come di consueto scrive, dirige e monta, voglia raccontare un tratto di se stesso per mezzo del personaggio di Fabienne: come aveva fatto anche con Ritratto di Famiglia con Tempesta in cui Abe Hiroshi era uno scrittore ormai in disarmo che provava a rimettersi in carreggiata come padre e come uomo affidabile per la sua famiglia, l’autore giapponese mette in scena il bisogno di attaccarsi a qualcosa per non sprofondare (o per riemergere); per l’attrice di Le Verità questo qualcosa è il personaggio pubblico della sua sfolgorante carriera (che è anche la sua prigione), per lo scrittore la speranza di una ricomposizione delle incomprensioni con l’ex moglie e con il figlio. Le Verità è ad ogni modo un film assai ambizioso se consideriamo che è il primo del regista fuori dal Giappone: e a volte la fatica della scrittura si sente, pesa, quasi ci asfissia con la presenza di secondi livelli di lettura fin troppo insistiti, al punto che a vederlo e rivederlo (ho visto due volte il film) ci lascia la sensazione che nulla, nessun dialogo o inquadratura, sia privo di un preciso intento. E se si pensa alla naturalezza con cui si svolgevano sotto gli occhi dello spettatore film straordinari come Still Walking, I Wish, lo stesso Ritratto di Famiglia con Tempesta e Un Affare di Famiglia, rimane il dubbio che il desiderio di dire tutto abbia prodotto un qualcosa di troppo in alcuni momenti del film (molte sottolineature, alcune le ho citate sopra).

Importa molto? In fondo no: sebbene Le Verità sia inferiore a quasi tutti i film girati in patria, è comunque un bel film e Kore-Eda resta uno degli autori contemporanei che non si può non seguire con dedizione e rispetto.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.