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Un film “in mascherina”.

In un perimetro spazio-temporale volutamente vago, un gruppo di scienziati sta progettando in laboratorio una nuova pianta che possa donare felicità a chi se ne prende cura. Alice Woodard, a capo del team, decide di regalare un esemplare di Little Joe a suo figlio, affinché questi possa sentirsi meno solo durante le lunghe giornate lavorative della madre. L’amore però non basta e Little Joe sembra diventare, con il passare del tempo, sempre più esigente: il rischio è che le sue spore possano avviare un singolare processo di inaridimento delle anime umane con cui entrano in contatto.

Giunto in Italia sul finire dell’estate, l’ottavo lungometraggio di Jessica Hausner, gratificato a Cannes 2019 con il premio per la migliore attrice, è letteralmente un film “in mascherina”, nudo e asettico nella fotografia e nella costruzione degli ambienti, nell’impostazione della sceneggiatura e nella recitazione dell’intero cast. A prevalere è il bianco niveo dei laboratori, che cede il posto di notte alla luce violetta della serra, mentre gli scienziati si muovono come formiche nelle loro striminzite abitazioni e i bambini si avvicinano ai segreti pericolosi del laboratorio.

Contribuiscono all’alienazione onirica i soffici movimenti della macchina da presa, che estraniano gli scienziati dai loro pensieri e dalle loro parole, soffermandosi lentamente su una finestra illuminata o su una parete spoglia e lasciando fuori campo i protagonisti.

Sicuramente d’impatto la colonna sonora, che funge da rompighiaccio ed evoca il calore parossistico delle emozioni e delle paure di Alice, facendo affidamento su una miscellanea di suoni – dal flauto dolce a latrati avvilenti – per stordire lo spettatore con sicuro successo. La prima volta. L’eccessivo impiego delle tracce musicali più sperimentali finisce infatti per svilire alcune scene chiave, che perdono così mordente e si posano ciniche in quell’angolo della memoria freddo come un laboratorio biochimico.

Nel complesso l’idea di base, approfondita quanto basta, suggerisce comunque importanti riflessioni sulla necessità, oggi e domani, di prendersi cura degli altri. Come la rosa di Antoine de Saint-Exupéry, anche Little Joe attende pazientemente di essere accudito e addomesticato, prendendo il suo posto in un angolo della casa, sotto lo sguardo attento e curioso del bambino. Nel loro scambio muto, tra le ombre notturne, risiede tutta la desolante solitudine e lo smarrimento di un’anima ancora giovane e pura che si affaccia sulla terre gaste.

voto_3

Alberto Ferrante
Nasce a Catania nel 1995. Nella prima adolescenza inizia ad avvicinarsi al cinema, facendo rapidamente della settima arte il suo grande amore, insieme alla letteratura. Con le prime visioni di C’era una volta in America e Toro Scatenato inizia a percepire, come affermava Tarkovskij, ciò che risiede al di là dell’inquadratura. Così, si dedica alla ricerca di stili e tagli espressivi sempre nuovi. Ama i grandi classici europei, la New Hollywood, il cinema orientale e quello sudamericano, sostenendo sempre le piccole e pregevoli produzioni italiane. Scrive anche di cultura, cronaca, economia e tecnologia.