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LOGAN – THE WOLVERINE

LOGAN – THE WOLVERINE

Logan foto2

Un supereroe più umano e mortale per l’ultimo Wolverine.

Anche i supereroi sono fatti di carne, ossa (in questo caso adamantio) e soprattutto sangue. Anche gli Dei possono morire. Da qui il cinema dei supereroi, ormai a rischio saturazione e implosione, deve ripartire. Da un cinema che consciamente sposti i riflettori più su sentimenti e personaggi e meno su stravaganze ipercinetiche e meraviglie digitali. E’ una scelta forse più furba, ossia che arriva al momento giusto, che davvero coraggiosa e saggia. Ma tant’è. E per il capitolo finale a lui dedicato, l’artigliato e indistruttibile mutante, è protagonista di un film che rinuncia al suo nome di battaglia (Wolverine) e sceglie, appunto, la via dell’uomo comune, dell’eroe spogliato del proprio costume, semplicemente Logan. Come aveva fatto Stallone con i suoi Rocky (Balboa) e (John) Rambo e in parte Nolan nella trilogia del Cavaliere Oscuro. Si rimette in gioco l’individuo, l’icona spogliata della propria leggenda: è già depositaria di un immaginario che appartiene a tutti e può rinunciare anche al titolo con cui la massa la identifica. Logan, quindi, è il film su Wolverine che al regista James Mangold non è riuscito nella sortita precedente (quella ambientata in Giappone…), ancora troppo indecisa sulla strada da prendere: parabola sofferta sui sentimenti di un immortale che vuole morire o giocattolone adatto ad ogni tipo di pubblico? No. Qui Mangold, e la sua star Hugh Jackman, vero e proprio demiurgo dietro l’intera operazione Wolverine (almeno dal primo film solista in cui era interprete), hanno campo libero da interferenze dello studio. Forti dello strepitoso successo del violento e parolacciaro Deadpool, senza la “responsabilità” pressante di un faraonico budget da compensare con i record al botteghino (Jackman per primo si è abbassato il cachet pur di permettere la realizzazione della pellicola), il regista e la star riescono nell’ardua impresa, a diciassette anni dalla sua prima apparizione sul grande schermo, di restituire il ritratto sinora più adulto e sofferto del supereroe di casa Marvel. E se l’omaggio al western è dichiarato esplicitamente a partire dal riferimento al Cavaliere della valle solitaria, Logan è anche e soprattutto una storia di redenzione terminale ambientata in un futuro distopico dove forse i supereroi non sono mai esistiti davvero e in cui il passato è una non meglio precisata chimera riletta attraverso la lente deformante e colorata dei comics. Un futuro (?) dove i pochi mutanti rimasti sono giovani freaks ed emarginati braccati da mercenari governativi (memorabile il cattivo Boyd Holbrook, con mano bionica) che tentano un’ultima (im)possibile fuga fuori dal confine Usa. In questi Stati Uniti che non possono più essere definiti la this land is your land decantata da Woody Guthrie, e che ricordano da vicino (volontariamente o meno non ci interessa) l’attuale temperie politica di Trump, in questo deserto decadente che non sembra più quello delle infinite terre selvagge e delle innumerevoli opportunità messe sullo schermo da Ford e Hawks, ma assomiglia a quello post-apocalittico di George Miller e dei suoi Mad Max, Logan/Jackman (l’identificazione tra attore e personaggio è sempre più totale) si configura come l’antieroe per eccellenza. Un uomo messo a confronto con la propria mortalità e le proprie scelte, con la propria paternità (e il rapporto col padre putativo) e il proprio lascito. Un percorso lungo e doloroso, ma infine catartico, che porta alla mente (come già è stato sottolineato altrove, e non solo per quanto riguarda il look dell’invecchiato protagonista) anche il cinema di Mel Gibson. E questo road movie, questa lunga via crucis di sofferenze fisiche, mostrate nel corpo sfatto, sanguinante, massacrato, malato, è indiscutibilmente la Passione di Cristo della Marvel. Tutto ciò al netto di una struttura narrativa non priva di lungaggini, semplificazioni e reiterazioni imperdonabili (quante volte è ripetuto il meccanismo di fuga, riposo e pericolo?). Su cui però, per una volta, travolti dall’assunto che sta alla base della pellicola, così come dall’effetto simpatetico e struggente nel vedere per l’ultima volta sullo schermo il personaggio interpretato da Hugh Jackman, si è lieti di chiudere un occhio. Gli enormi incassi registrati in tutto il mondo potrebbero far rimpiangere a qualche executive della Fox la scelta di non aver dato in precedenza maggior libertà a regista e sceneggiatori. Straordinaria fotografia di John Mathieson, mentre nella percussiva colonna sonora di Marco Beltrami affiorano anche Find My Way di Grant-Lee Phillips e The Man Comes Around di Johnny Cash.

voto_3

Alex Poltronieri
Nasce a Ferrara, vive a Ferrara (e molto probabilmente morirà a Ferrara). Si laurea al Dams di Bologna in "Storia e critica del cinema" nel 2011. Folgorato in giovane età da decine di orripilanti film horror, inizia poi ad appassionarsi anche al cinema "serio", ritenendosi oggi un buon conoscitore del cinema americano classico e moderno. Tra i suoi miti, in ordine sparso: Sydney Pollack, John Cassavetes, François Truffaut, Clint Eastwood, Michael Mann, Fritz Lang, Sam Raimi, Peter Bogdanovich, Billy Wilder, Akira Kurosawa, Dino Risi, Howard Hawks e tanti altri. Oltre a “Il Bel Cinema” collabora con la webzine "Ondacinema" e con le riviste "Cin&media" e "Orfeo Magazine". Nel 2009 si classifica terzo al concorso "Alberto Farassino - Scrivere di cinema".