La lezione della storia e il prezzo da pagare.
Dell’affaire Dreyfus sappiamo tutto e potremmo anche non sapere altro rispetto a quanto abbiamo appreso sui banchi di scuola. La scommessa del nuovo film di Roman Polanski è però di trasportare di peso nella nostra sensibilità una vicenda clamorosa e per molti versi cardinale nel mosaico storico dell’Europa in transizione dalle illusioni repubblicane e democratiche (quelle della Terza Repubblica francese seguita alla caduta di Napoleone III) alla ferocia e alla barbarie di due guerre mondiali e di totalitarismi responsabili di massacri e genocidi senza precedenti.
Dal generale al particolare: la prima – peraltro magnifica – sequenza del film è una summa. Il totale della piazza con l’esercito schierato, il picchetto (in questo caso non d’onore, al contrario) che avanza fino alla proclamazione della degradazione del capitano Dreyfus e alla sua umiliazione pubblica come ufficiale e come uomo, ben espressa dall’inquadratura di armi, fregi e mostrine strappate di dosso e gettate per terra. Polanski mostra, a noi spettatori consapevoli dell’ingiustizia, quanto possa essere mostruosa la ragion di Stato attraverso la ieraticità dei gesti, affidandosi alla nuda cronaca, tagliando fuori il romanzesco.
Ma la posta è un’altra. Non l’elogio dell’individualismo contro il Leviatano, benché a un certo punto il colonnello Picquart si trovi a dover fronteggiare quest’ultimo dall’interno, nella lotta all’ipocrisia con cui l’esercito prova a nascondere la propria malafede e corruzione. Bensì la ricerca senza compromessi della verità, a prescindere dai convincimenti personali (nel film non si perde occasione per additare le convinzioni antisemite di Picquart). Il sentimento di giustizia al di sopra di ogni convenienza politica. In questa direzione, la ricostruzione storica assume una particolare plasticità nelle scene processuali e all’interno dei palazzi del potere, in cui il ricorso insistito alla profondità di campo ha un ruolo più accentuato: il senso di recita dal vivo, teatrale nel significato pieno del termine, serve a convincere lo spettatore dell’attualità di quanto vede e sente, con l’ovvio riferimento alle vicissitudini personali dell’autore del film.
Eppure rimane una nota incerta (o forse troppo grave) nella filologia polanskiana. La dicotomia tra copia e falso, espressa non solo nella scena presso la sala delle sculture del Louvre ma in vari momenti del film, relega il cinema a supporto di idee, lo fa strumentale e giudizioso, un passo indietro rispetto all’ambiguità e alla libertà di tanti (capo)lavori passati del regista polacco. La fedeltà alla “copia” limita la rivelazione del “falso” che ogni immagine porta necessariamente con sé e di cui tanti autori contemporanei sono perfettamente coscienti (si pensi solo all’ultimo Tarantino, per certi versi agli antipodi di questo). L’autore di Chinatown capisce che l’emozione non basta, vuole convincere la nostra mente. Non è questione di metafore e di retorica troppo presente, per quanto una reazione sbrigativa possa essere anche di questo tenore. Non è un fatto di didattica, semmai della sua pervasività. Possiamo guardare questi uomini agire, sentirne tutta l’impotenza, la meschinità e la limitatezza davanti agli Stati, alle passioni, alle idee e agli errori del loro tempo. Comprendere la lezione della storia, persino empatizzare e nonostante questo rimanere fermi o scrollare le spalle: la prova è che le ingiustizie continuano e prosperano (e i film di Joshua Oppenheimer, per esempio, stanno lì a ricordarcelo).
Certo, è un cinema che possiamo ammirare. Sotto il quale possiamo fremere di giustezza, di adamantina severità. Ma è anche un cinema che rinuncia all’imperfezione, al non finito, all’informe e all’insondabile della condizione umana, e che si atteggia spesso a saperne di più dei suoi protagonisti, di Picquart e di Dreyfus non meno che della pletora di generali e quadri dell’esercito implicati nell’affaire. La nobiltà rischia di soffocare l’adesione. Conquistare il nostro consenso ha un prezzo. Polanski, 86 anni e una storia come la sua alle spalle, ha saputo pagarlo molte volte. In questo caso invece è sempre un Grande Maestro, ma spesso dà l’impressione di non voler più tollerare di essere discutibile.
Sign In