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L’UOMO IN PIÙ

L’UOMO IN PIÙ

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Questo non è un gioco per uomini tristi.

In Aut/Aut, opera maestra del filosofo danese Sören Kierkegaard, quella in cui l’autore impone la necessità di scegliere tra una vita etica (spirituale) e una estetica (terrena, improntata soprattutto sulle cose materiali) viene presentato il caso di un certo Ludvig Blackfeldt. Un uomo morto suicida il cui ultimo biglietto recita i motivi del suo gesto: non ha resistito nel vedere l’infinito, che lui identifica con l’ignoranza, preferendo così la morte autoinflitta (non un’azione degna di lode a suo parere), vista come una forma di libertà assoluta, seppur negativa. “Beato colui che trova la forma positiva”, si conclude così il suo pensiero.

È azzardato mettere a fuoco L’uomo in più, film d’esordio di un autore ormai stracelebrato come Paolo Sorrentino, in questi termini? Forse, ma proviamo a scavare sotto la superficie, anche narrativa, delle vicende dell’ex calciatore Antonio Pisapia, e dell’ormai ex cantante pop Tony Pisapia, uniti ontologicamente dall’omonimia – ovviamente non solo da quella – partendo dalla fine: il primo muore suicida, il secondo “vendicherà” l’amico in un atto estremo di libertà. E forse il punto è proprio lì, la libertà.

L’uomo in più, a ben vedere, non è un film sul calcio, e neanche sulla musica leggera (due capisaldi della napoletanità prima, e dell’italianità poi, specie nel periodo in cui è ambientato il film: siamo nei primi anni 80), bensì un film sulla libertà tout court in un mondo smarrito, pervaso da un fantasma subdolo che i protagonisti stentano a riconoscere (l’ignoranza di cui parlava il povero Ludvig?) e che li schiaccia in un momento particolare e quasi inevitabile della vita di ogni artista/atleta: il declino. Entrambi sperimentano quella forma di libertà negativa citata sopra, identificabile con l’assenza totale di legami veri (l’unico che sembra resistere è quello tra l’Antonio calciatore e il suo mentore, il Molosso, reliquia di un calcio che non c’è più). Riluttanti all’amicizia, se non per puri scopi utilitaristici (vedi la relazione tra Tony e il suo manager) e allergici a ogni tipo di famiglia, i due bastano a se stessi. “A me non me n’è mai fregato un cazzo di nessuno” dice Tony a un certo punto e, probabilmente, lo stesso vale per Antonio.

Sono loro l’uomo in più del titolo; non un’idea rivoluzionaria, anche in termini di tattica, come si crede nel film, bensì il simbolo di uomini appartenenti al sistema, messi da parte forse troppo presto a causa di debolezze che quel sistema ha contribuito a creare. Qualcosa che, per dirlo alla maniera degli opinionisti nostrani esperti di 4-2-3-1 et similia, è avulso al gioco, un corpo estraneo. E così Tony, prima donna sessuomane e cocainomane a cui tutto è dovuto, è condannato all’oblio dal mondo dello spettacolo perché “la televisione la guarda il papa”, mentre per Antonio, più debole e la cui carriera viene stroncata da un infortunio, l’equazione duro lavoro uguale posto di allenatore non vale. Si trova obbligato a scontare la sua ontologica tristezza, all’interno di un carrozzone, quello del pallone, che in fondo è una festa.

Sorrentino, come poi ha dato modo di vedere anche nel proseguo della sua carriera, ama i personaggi fascinosi, a volte malinconici, spesso schiacciati dalle conseguenze delle loro azioni. A ben vedere, il Tony Pisapia cantante altro non è che il capostipite di quella schiera di artisti della canzone oppressi quali il Cheyenne di This Must Be the Place, il Tony Pagoda di Hanno tutti ragione (esordio letterario dell’autore napoletano) e dai quali non si discosta troppo Jep Gambardella, con la sola distinzione che quest’ultimo riesce a sguazzare in quello “squallore disgraziato” in cui molti di loro si trovano: quella “grande bellezza” epitome della vita estetica teorizzata da Kierkegaard? Sorrentino è Sorrentino anche nella sua messa in scena levigata e virtuosa, basti solo pensare alla presentazione dei personaggi: il carrello alle spalle di Antonio che entra nella bolgia ululante di quello che si presume essere il San Paolo di Napoli e il piano sequenza che introduce Tony nel night dopo un concerto, un uomo solo al comando che non deve rendere conto a nessuno. Da notare anche l’uso della colonna sonora pop: puntuale, mai invadente, anche nel punteggiare la chiusa finale con la cover di I Will Survive di Gloria Gaynor da parte dei Cake. Il cineasta napoletano poi riesce a non farsi prendere la mano dall’eccessiva letterarietà che contraddistingue i lavori successivi, fino al parossismo del suo ultimo film. In questo suo esordio forse si assiste ad alcune sottolineature di troppo, come l’omonimia dei personaggi o la sequenza in cui entrambi si “guardano” attraverso lo schermo, in una sorta di trasmissione televisiva dei falliti, unico punto d’incontro delle parabole discendenti dei due e poi palcoscenico dei proclami di libertà di Tony.

In un pezzo messo all’interno di una rubrica sul cinema e sullo sport, inoltre, è doveroso rimarcare come Sorrentino regali pezzi di bel cinema che faranno felici gli amanti del pallone. La prima sequenza, quella dello sfogo dell’allenatore girata in quelli che sembrano gli spogliatoi del Napoli, un vero e proprio santuario, è magistrale. Così come ha il sapore d’affresco d’epoca la scena surreale della festa di Carnevale nei salotti bene, alla quale Antonio, credendolo un ballo in maschera, si presenta con la divisa della Juventus: sogno molto spesso proibito e proibitivo di molti atleti.

Un certo Edson Arantes do Nascimento, detto Pelè, amava dire “il pareggio non esiste” e ciò vale anche per L’uomo in più. Antonio perde, mentre Tony (forse) vince. Con l’uccisione del presidente della squadra dell’amico e la fuga al mare costituisce un universo morale tutto suo, in cui riesce ad andare in goal, in un campetto di periferia, ingabbiato, lontano dalle ribalte canoniche magari, ma in grado di liberarlo anche dal fantasma latente della morte, sempre in mare, del fratello. Alla fine ritroverà il sorriso in carcere e in cucina, l’unica cosa che non gli ha mai voltato le spalle, perché quando si ha la libertà, positiva o negativa che sia, non c’è spazio per la tristezza.

voto_4

Matteo Catalani
Il cinema l’ha sempre accompagnato (ricorda ancora i pomeriggi passati davanti ai DVD dello zio in compagnia di Terrence Malick e Michael Mann, per poi scoprire come tenere la penna in mano grazie a Glengarry Glen Ross e ai film di Wilder) dirottandolo verso un’(in)felice carriera umanistica a discapito di un futuro scientifico già per lui preconfezionato. Ama lo storytelling in tutte le sue forme, che cerca di far sue con abnorme fatica. In attesa di svegliarsi un giorno avendo già nel cassetto un esordio alla Zadie Smith, o di venir selezionato come point guard titolare dai Portland Trail Blazers, trascorre i suoi indolenti pomeriggi guardando film e tentando di mettere ordine nei suoi pensieri (e nella sua vita). Con “Il Bel Cinema” è alla sua prima esperienza in un sito specializzato.