Il nemico invisibile.
I classici, si sa, vanno maneggiati con cura. Ma non tutti i mali vengono per nuocere. È risaputo che era nelle intenzioni della Universal di riportare in vita i suoi mostri classici (la Mummia, l’Uomo Invisibile, l’Uomo Lupo…) declinandoli con sensibilità moderna: peccato che fossero partiti col piede sbagliato affidando La Mummia ad Alex Kurtzman – per rifare il classico del 1932 di Karl Freund con Boris Karloff – e aprendo di fatto il progetto Dark Universe. Un flop prevedibile, considerando la poao aderenza di stile tra regista e prodotto, per un film che nasceva già vecchio, anzi più vecchio del vecchio.
Benvenuto allora a Leigh Whannell, che forte del suo The Insidious 3 del 2015 aveva, almeno sulla carta, una predisposizione ben più forte con l’universo orrorifico della Universal. Certo, la produzione è della Blumhouse, quella degli spaventi d’autore con Sinister, Dark Skies e Le Streghe Di Salem: insomma, horror low budget che però hanno una fortissima presa sulla contemporaneità, inserendo le dinamiche del genere nella paura sociale di oggi. Il risultato è, pur con tutte le premesse, sorprendente: un film intimo e potentissimo, che rilegge la storia arcinota dello scienziato che scopre e prova su di sé l’invisibilità ma che nello stesso tempo dissolve i legacci con la storia classica e la immerge nel presente, incredibilmente senza nessuna sbavatura di senso.
The Invisible Man è stato definito il primo horror dell’era del #MeToo: giusto e sbagliato. Perché il film di Leigh Whannell è sì un horror che si adagia e prende le forme di un profilo sociale attuale, il femminicidio e lo stalking, ma insieme va oltre. Un lavoro organizzato su una sapiente costruzione e disposizione degli spazi e delle geometrie, con una porzione di film che riesce a raccontare la violazione dell’intimità riprendendo gli stilemi dell’home invasion ma rovesciandone di fatto i presupposti: è insomma un’opera che costruisce la sua storia, tassello dopo tassello, con attenzione e disinvoltura, con un crescendo silenzioso ma carico di un’immanenza tensiva cupa e stordente, scivolando via dai confini del genere horror e slabbrandone la configurazione per parlare di aberrazione psicotica, utilizzando quella splendida interprete che è Elisabeth Moss per descrivere in maniera sorprendente lo stato di scollamento sociale e psichico di una vittima di violenza. C’è sicuramente un cambio di passo, circa a metà film, dovuto al progredire inesorabile della trama: ma le sfumature ritornano sul finale, tornando a parlare di paranoia, postumi dell’abuso, fantasmi del trauma subito.
Non è certo un caso se tutto questo apparato narrativo e teorico sia fornito dalla storia di un uomo invisibile: così come ovviamente non è un caso se nel film di Whannell lo scopritore dell’invisibilità non è uno scienziato pazzo ma un ottico, un tecnico dei giorni nostri, il che immediatamente trasporta il metatesto di The Invisible Man in un campo di stringente attualità, ovvero il potere delle immagini.
Perché l’uomo invisibile è tale in quanto indossa una tuta che non è mimetica, ma ricoperta totalmente di piccolissime, infinite telecamere. È l’abuso della visione a creare la negazione della visione.
In questo senso, spostando la visione su quanto visto, The Invisible Man di Whannell è l’esatto opposto di Hollow Man, L’Uomo Senza Ombra di Paul Verhoeven del 2000: una storia di sopraffazione sessuale che in un film, quello dell’autore di Basic Instinct, diventa materica e profondamente action, mentre nell’altro si dissolve negando ogni tipo di erotismo ad una storia di sesso, ogni materialità ai suoi protagonisti, in senso metaforico, sociale e letterale.
In questo modo, The Invisible Man diventa uno dei pochi horror che sfrutta e lavora su campo e controcampo e quindi sull’immagine: filtrata, tradita, trasposta, tradotta dai suoi stessi dispositivi, dai media (telecamere, tablet, cellulari), in maniera similare ma certamente più profonda e acuta di altri film sempre della Blumhouse – Paranormal Activity in testa, ma anche Sinister, Unfriended, Viral - ponendo quindi come punto fisso della sua ricerca il senso dell’immagine e la sua natura più profonda.
La metafora è tanto più potente quanto più scoperta: l’occhio e lo sguardo sono al centro non solo dell’indagine cinematografica ma del Cinema stesso; ma in più Whannell sa come rilanciare tutto, come si diceva sopra, cambiando continuamente ritmo e passo, genere e contenitore, riuscendo a dare equilibrio alla coesistenza di action, thriller, fantascienza e sociale, spiazzando di continuo lo spettatore e le sue aspettative.
Diventa chiaro come The Invisible Man sia un film bellissimo e importante non solo in assoluto, ma soprattutto oggi: con la sua portata (inconsapevolmente?) teoretica totale, e anche perché svela – lui e la Blumhouse e Jason Blum – come oggi il nemico sia sempre più invisibile, sempre più intorno a noi, sempre pronto ad ingannare le nostre percezioni. E noi ci specchiamo dentro questo cinema, che fa quello che deve fare il Cinema (far suonare campanelli d’allarme, mostrare il pericolo là dove non lo vediamo), scorgendovi dentro la tristezza inquietante dei nostri tempi così difficili.
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