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Le donne, la ricerca della verità, la Storia.

E se uno dei tratti mediante i quali interpretare l’ormai lunga carriera di Pedro Almodóvar incentrata sul melò al femminile fosse nell’espressione di una reazione all’ingombrante e aborrita figura paterna rappresentata in Spagna dal Caudillo Francisco Franco? (1) Non è il caso di spingere troppo a fondo un ragionamento di tipo psicanalitico, naturalmente, ma a giudicare dai due registri, il privato e lo storico, che si inseguono e infine abbracciano in questo suo ultimo lungometraggio, presentato come film d’apertura della Mostra del Cinema 2021, i padri per il regista castigliano sono una grave sciagura. In Madres Paralelas tutte le donne, siano esse nonne, bisnonne, figlie e ovviamente madri, hanno un animo indomito e cercano, spinte dalla pietas e dal loro senso di giustizia, di ristabilire la verità ripercorrendo il dolore di una storia, personale quanto collettiva, che gli uomini sembrano voler rimuovere per continuare invece ad esercitare un’oppressione testarda ed egoista. Janis (una Penelope Cruz che forse non è mai stata così ben diretta), la giovanissima Ana e sua madre sono infatti tutte donne sfregiate o mal supportate, in un modo o nell’altro, dagli uomini della loro vita: la prima è un’affermata fotografa in carriera, ma si trova alla soglia dei 40 anni a dover affrontare da sola la gravidanza, sia pure nella sua consapevolezza di donna forte; Ana dà alla luce la figlia di uno stupro collettivo dopo il quale è stata allontanata e ripudiata dal padre, mentre sua madre tenta con rabbia e ambizione, una volta liberatasi dal suo matrimonio, di perseguire una carriera di attrice teatrale.

Non è certo un tema nuovo per l’autore di Volver (si pensi solo al recente The Human Voice, in cui l’autodistruttiva protagonista femminile recrimina contro l’abbandono da parte dell’amato), ma in Madres Paralelas sembra trovare un ideale compimento e incardinamento nella peculiare storia del paese iberico e dei suoi molti desaparecidos. In un’opera che inizia significativamente evocando un teschio e termina con il disseppellimento di una serie di scheletri, il regista spagnolo pare lasciare il proscenio al dolore e al raccoglimento. Non ci sono scene madri, in Madres Paralelas, e il cuore dell’intreccio, che altrove avrebbe condotto alternativamente al melodramma più sfrenato o all’arguzia della pochade, finisce avvolto da un riserbo e da una misura che suonano quelli di una direzione sempre meno protagonista e sempre più matura. Almodóvar non ha più bisogno, come a parere di chi scrive accadeva in molti dei film girati a cavallo tra i due secoli, di sottolineare nulla: da tempo ha dilavato il suo stile e può così accennare con un’ellissi secca (poi completata da un flashback) alla forza morale di Janis che decide di tenere la bimba che porta in grembo a fronte della debolezza dell’archeologo che l’ha messa incinta; e può addirittura chiudere la lunga parte melò con una rapida dissolvenza, senza insistenze fuori luogo sulle difficoltà dei suoi uomini e donne.

È chiaro, volendo si può evidenziare una certa difficoltà della sceneggiatura a tenere insieme le storie private dei personaggi e l’elegia conclusiva, alla quale non manca neppure un pizzico di sapore didattico, per quanto nobile esso sia; ma non si può allora neanche tacere che l’ambientazione quasi tutta in interni cittadini della vicenda delle due madri parallele stride efficacemente nell’opposizione con quella paesana e in un certo senso persino “documentaria” del finale, quasi a sottolineare una cesura necessaria. In cui il silenzio della morte e il peso del passato con cui occorre riconciliarsi interrompano per alcuni intensi e commossi istanti il flusso delle (pre)occupazioni della vita e del presente.

(1) Di sguincio potremmo qui anche ricordare come il Generalissimo sia morto nel 1975 (permettendo alla Spagna la transizione alla democrazia) e l’esordio del provocatorio Almodóvar sia avvenuto nel 1980 con Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio: possiamo leggervi una coincidenza temporale, ma forse anche di più.

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Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.