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Maigret foto3

Un nuovo adattamento da Simenon.

La Nouvelle Vague non ha mai amato Simenon. Se si eccettua Chabrol, solo due dei suoi padri spirituali si sono confrontati con un suo romanzo, Renoir e Melville, e per Godard solo grazie all’adattamento del primo lo scrittore belga assumeva una statura pari a quella di Balzac. Per il resto è stato abbondantemente corteggiato dal cinéma de papa (da Decoin a Delannoy, passando per Carné e Autant-Lara), poi dai suoi prosecutori (Granier-Deferre e l’esordio di Tavernier), infine da star e attori che usano i suoi intrecci in cerca di canovacci per pulsioni autoriali (Serge Gainsbourg e Mathieu Almaric). Leconte, principalmente regista di commedie leggere, si era già confrontato con due Simenon: oltre a L’uomo del Treno (2002), con L’insolito caso del sig. Hire (1989), non a caso già portato egregiamente sullo schermo da Duvivier (Panico, 1946) ma cambiando le angolature di ripresa nella celebre scena della morte del protagonista per cercare di staccarsi dal modello originario.

In questo nuovo adattamento, Depardieu è l’attore perfetto per interpretare Maigret (e fa strano pensare che solo adesso abbia incarnato questo ruolo), leggendo la descrizione che ne viene data nel primo romanzo della lunga serie dedicata alla figura del commissario (Pietr il lettone): Non aveva né baffi né scarpe a doppia suola. Portava abiti di lana fine e di buon taglio. (…) La struttura era plebea. Maigret era enorme e di ossatura robusta. Muscoli duri risaltavano sotto la giacca e deformavano in poco tempo anche i pantaloni più nuovi. Aveva in particolare un modo tutto suo di piazzarsi in un posto che era talora risultato sgradevole persino a molti colleghi. Leconte sceglie saggiamente di adattare un’opera mai portata sul grande schermo, giustificando così un titolo secco e per nulla descrittivo. Quando non impegnato a far evolvere l’intreccio, Maigret centellina le informazioni sul suo protagonista, tanto da accontentare sia il neofita che il fan su questa figura di culto: ha una moglie, una figlia, è scafato nella sua professione e la pipa (con una didascalica citazione da Magritte) è un simbolo dello stadio avanzato della sua carriera (il film è pur sempre tratto dal 45° romanzo dedicato a Maigret).

Come la mia recensione, anche il film è un compito scolastico svolto bene, con tutti i crismi: la progressione dell’indagine è interessante quanto basta da non annoiare lo spettatore, complice anche la durata (meno di 90 minuti), la fotografia è meno piatta di una produzione media televisiva, le scenografie fanno molto Francia d’altri tempi senza stabilire un periodo preciso evitando riferimenti all’attualità e lascio all’intelligenza dei lettori il parere sugli attori (del resto, rivediamo qui dopo secoli Aurore Clément). Se si esclude Clara Antoons, che nell’ultimo quarto del film sembra la sorella di Billie Eilish, l’unico tratto tipicamente contemporaneo è forse l’elemento peggiore del film: il découpage. In una storia così statica, con un personaggio così riflessivo e stanco, Leconte decide di girare tutto con macchina a mano e zoom degni di un seguace del Dogma 95. Forse il treppiede non era previsto nel budget perché si dubita che sia un atto di autosabotaggio dopo la regia fredda e a sospetto di accademia di Mr. Hire. Si accettano volentieri analisi stilistiche da parte degli autorialisti (se ce ne sono) e soprattutto fantasiose ipotesi di esegesi sulla dissolvenza nell’ultima inquadratura. Aspettiamo di vedere anche in Italia un adattamento da Le persiane verdi (dal figlio di Jacques Becker, un veterano) sempre con Depardieu e Fanny Ardant (anticipiamo già le lodi sperticate agli attori), non a caso tratto dal romanzo di Simenon più amato dalla critica (i detrattori sostenevano che fosse stato scritto apposta per loro). Quanto a Maigret, se avete meno di 60 anni dubito che questo filmetto di genere vi farà venire voglia di acquistare uno dei 15 “mattoni” Adelphi.

voto_3

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Campano, suoi articoli sono apparsi tra gli altri su Segnocinema e Blow Up. Cinefilo folgorato tanto da Godard quanto da Mario Bava ma diffidente di chi limita il proprio pantheon autoriale al solo Occidente. Pensa ancora che la critica debba essere una voce nel dibattito costante tra opera e spettatore e non un diktat a sé stante. Ha un disgraziato debole per le liste.