Note a margine sul film del momento.
C’è da rimanere stupiti e spiazzati nel constatare che molti – almeno in diversi commenti sui social – in Mank abbiano visto solo il dito senza riuscire a scorgere la luna. Rattristano un po’ le letture ideologiche, abbastanza miopi e forzate, che si perdono in quisquilie e non colgono l’estrema bellezza di uno dei film più importanti dell’anno, che è anche e soprattutto un sincero omaggio e un cristallino atto d’amore nei confronti del cinema, la fabbrica dei sogni e delle illusioni. Denso, stratificato e complesso, il nuovo film di David Fincher affronta diversi argomenti e tematiche, parla di una Hollywood alle prese con la terribile crisi economica e finanziaria dovuta alla Grande Depressione, di una Hollywood negli anni cruciali del passaggio dal muto al sonoro, di un sistema produttivo ormai morto e sepolto, tramontato da tempo, completamente diverso da quello attuale. Mank non è un film su Orson Welles, figura di fatto marginale al suo interno. Mank, come si evince dal titolo, è incentrato su Herman Mankiewicz, uomo dall’ironia caustica e dal sarcasmo pungente, sceneggiatore di enorme talento con forti pulsioni autodistruttive. Mank – è palese e pacifico – abbraccia il suo punto di vista, non quello di Orson Welles. Mank non parla solo della genesi di Quarto Potere ma di molto altro, non compie alcun reato di lesa maestà nei confronti di Welles e della sua innata e innegabile genialità. E poi, se proprio si vuole entrare nello specifico e nel merito della querelle su chi sia stato il vero artefice dello script di Quarto Potere, bisognerebbe soffermarsi sul fatto che Mank è incentrato sul lavoro di scrittura del copione da parte di Mankiewicz. Si ferma lì, per poi fare un balzo in avanti fino alla notte degli Oscar, non entra nel merito della lavorazione del capolavoro di Welles, a cui non viene tolto alcunchè. In Mank non si sostiene certo che Welles non lo abbia diretto, interpretato, prodotto (come ricorda lo stesso Welles sul finale, durante un rabbioso e furente scoppio d’ira) e contribuito a scriverlo col suo lavoro di revisione finale. E poi, si badi bene, sostenere che il merito maggiore della riuscita dello script di Quarto Potere sia da attribuire a Mankiewicz, che a differenza di Orson Welles conosceva benissimo William Randolph Hearst (1) e la seconda moglie Marion Davies, non implica affatto sminuire Welles, né tanto meno sottrargli la paternità dell’opera. Lo sapete, vero, che Fincher non è uno sceneggiatore e non firma mai i copioni dei suoi film? Stando alle critiche mosse a Mank sarebbe come sostenere che Fincher non è un autore o un grande cineasta perché non si occupa in prima persona delle sceneggiature dei suoi lavori. Fincher, che adatta e traspone un copione scritto diversi anni fa dal padre Jack – venuto a mancare nel 2003 -, non vuole screditare Welles e incensare Mankiewicz, ma servirsi di una storia di grande impatto e richiamo, incentrata su uno dei film più belli e importanti di sempre, per parlare di cinema in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue sfaccettature, del processo di creazione, ideazione e scrittura, dei giochi di potere e manipolazione – subdoli, crudeli e spietati – all’interno degli Studios e della politica americana. Fincher, da non scrittore e da non sceneggiatore, quindi in modo piuttosto “umile”, coraggioso e cristallino, rende finalmente merito ai tanti autori che hanno contribuito e contribuiscono tuttora alla riuscita di un’opera cinematografica senza riceverne il giusto merito, sfruttati dai produttori, rimanendo quasi sempre dietro le quinte, spesso e volentieri sconosciuti e ignorati dal pubblico che si è commosso, ha riso, si è appassionato e ha riflettuto nel vedere i film scritti da loro. Mank, visibile solo su Netflix, disponibile esclusivamente sui nostri schermi domestici, senza nemmeno quella piccola e breve finestra temporale sul grande schermo (negata dal Covid19) che invece hanno avuto Roma di Alfonso Cuarón e The Irishman di Martin Scorsese, parla anche della nostra contemporaneità, in cui il cinema sta attraversando un momento difficilissimo, una crisi gravissima a causa della pandemia. Verrebbe da dire: a ogni epoca la sua crisi, con la viva speranza che il cinema possa superare anche questi momenti di difficoltà, com’è stato capace in passato di uscire fuori da tante altre crisi, compresa appunto quella dovuta alla Grande Depressione, terminata proprio un paio d’anni prima dell’uscita di Quarto Potere. Che resta un film di Orson Welles, come sa bene Fincher e come sapeva bene suo padre Jack, a cui Mank è dedicato. Il regista di Seven e The Social Network ci ricorda che il cinema è un lavoro di squadra, ogni componente è fondamentale per la sua riuscita e di questo Herman Mankiewicz era ben consapevole, a differenza del ragazzo prodigio, nuovo dell’ambiente, giunto a Hollywood da New York a soli 24 anni dopo una folgorante ascesa in campo teatrale e radiofonico con un contratto che gli garantiva un’assoluta e totale libertà artistica. Fincher probabilmente non ci restituisce un’immagine simpatica e apologetica del regista e autore di Quarto Potere (2), specie sul finale, dove con un colpo (gobbo) da maestro, opera un’identificazione decisamente ardita e sorprendente che avrebbe lasciato di sasso lo stesso Welles, il quale d’improvviso si trova ad essere tra le fonti d’ispirazione per la costruzione del protagonista di Citizen Kane, che avrebbe poi interpretato in modo magistrale.
(1) Per chi non lo sapesse la figura di Charles Foster Kane al centro di Quarto Potere è palesemente modellata e plasmata sul magnate William Randolph Hearst, editore, imprenditore e politico statunitense che cercò in ogni modo di bloccare la realizzazione della pellicola di Orson Welles.
(2) Nella prima entrata in scena di Welles in Mank si ha l’impressione di scorgere L’Infernale Quinlan.
Sign In