L’uomo che voleva esserci.
Se i fratelli Coen ci avevano mostrato un uomo che non c’era (in un lavoro nel quale l’eleganza torpida del bianco e nero di Roger Deakins rivaleggiava con la profondità di campo di quello di Erik Messerschmidt in questo film), David Fincher con il suo Mank ci racconta un uomo, Herman J. Mankiewicz, che dietro la buccia da intellettuale ironico e distaccato voleva assolutamente esserci: e il senso di questo nuovo film del regista di Seven e Gone Girl è quello di restituire luce ad una grande figura di sceneggiatore assai più che quello di rinverdire la polemica stimolata da Pauline Kael col suo Raising Kane, il lungo saggio pubblicato sul New Yorker che nel 1971 tendeva ad attribuire la paternità della sceneggiatura di Quarto Potere tutta a Mankiewicz – atto che secondo molti sminuiva e smontava il mito di Orson Welles come deus ex machina e autore totale del suo straordinario esordio cinematografico.
In tempi che hanno quantomeno incrinato il mito e il prestigio dell’autorialismo non è difficile acconsentire almeno in parte; e del resto per uno sceneggiatore che, spesso come script doctor non accreditato, ha messo mano ai copioni di alcuni dei capolavori dei fratelli Marx, di Pranzo alle otto di Cukor e di The Front Page (Lewis Milestone, 1931) tra gli altri, il risarcimento è dovuto senz’altro. Ma una volta che ci si sia inchinati di fronte alle legittime buone intenzioni dello script di Jack Fincher, quale altro valore si può rintracciare nelle oltre due ore del film, un complesso viavai dentro gli anni Trenta che, pur fruibile da tutti i cinefili minimamente avveduti, ci trasporta in un mondo perduto con personaggi più o meno straordinari del primo decennio del cinema sonoro?
Qui il discorso è inevitabilmente più soggettivo perché per quanto romanzato si tratta pur sempre di un canonico biopic che racconta il talento di uno scrittore brillante e pungente, ma anche dissipato, alcolizzato e giocatore d’azzardo che si cimenta nel lavoro più importante della sua carriera professionale, oltretutto scritto (tra il 1939 e il 1940) in condizioni di salute precarie, pressato da tempi di consegna strettissimi e per questo assistito da una copista adatta alla bisogna: manco si trattasse di Fëdor Dostoevskij che scrive con la dattilografa e futura moglie Delitto e Castigo e Il Giocatore sotto la minaccia di un contratto capestro col suo editore. Siamo, come si capisce, nel bel mezzo del più caratteristico dei drammi con protagonista un artista tormentato: e in effetti il suo teatrino – che raggiunge il culmine nella scenata da ubriaco a San Simeon, la faraonica dimora di W.R. Hearst poi divenuta Xanadu nella finzione di Citizen Kane – finisce con l’evocazione del mito di Don Chisciotte e con tanto di attribuzione delle parti in commedia: Hearst-Chisciotte naturalmente, ma anche Sancho Panza-L.B. Mayer e Marion Davies-Dulcinea. Un vero e proprio delirio letterario da intellettuale infelice: tale che a un certo punto è legittimo chiedersi quanto costui meriti davvero la nostra simpatia. E anche una chiusura dei conti che dal regista di Zodiac forse non ci si attenderebbe.
Probabilmente il merito maggiore di Mank è di essere il ricco affresco di un grande periodo della storia del cinema: e tra i pezzi di bravura sono senz’altro da annoverare le sequenze girate dentro gli studi della MGM, tra le sfuriate e le lusinghe nei confronti dei salariati dell’abilissimo e prepotente Mayer. Mentre la vicenda della sconfitta elettorale dello scrittore e attivista socialista Upton Sinclair ha il sapore di un tema che serve soprattutto a colorare di dramma anni terribili che altrimenti apparirebbero attraverso la lente deformante di personaggi privilegiati chiusi dentro il loro mondo ovattato e protetto.
Per un film girato per un pubblico non specialista come quello di Netflix può bastare senz’altro, è un intarsio stratificato e approfondito con un uso del flashback – ispirato da Citizen Kane, se ce n’era davvero bisogno – che può disorientare la visione e sparigliare le identificazioni. Più elaborato e certo più arduo il compito dello spettatore critico, alle prese con un puzzle in cui quasi ogni battuta del protagonista potrebbe celare il vero senso del progetto, il punto di attracco di un’opera così sfarzosa nei suoi contributi tecnici da lasciare il dubbio che forse quel punto d’arrivo non ci sia sul serio. Se l’autore di The Game voleva ancora una volta togliere di mezzo le certezze con cui guardiamo un film, rompendo il quieto fluire del nostro pensiero sul e dentro il mondo, può darsi che ci sia riuscito. Peccato che non sembri proprio così.
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