A cavallo dell’inadeguatezza.
Aveva tentato di uscire dagli schemi, Xavier Dolan: ma col suo primo film in lingua inglese, il tribolato La mia vita con John F. Donovan (2018) gli è andata molto male (flop commerciale e critiche – meritate – senza appello). Eccolo così tornare ad una storia che con tutta evidenza è più nelle sue corde e, anche se non toglie di mezzo una certa nomea di genietto presuntuoso che gli viene affibbiata dai detrattori, sembra preludere a un secondo tempo della sua carriera.
Con Matthias & Maxime, insomma, il giovane cineasta si emancipa. Non più enfant prodige che salverà il cinema dall’apatia, Dolan potrà inciampare e sbagliare film: comunque vada il suo cinema d’autore più personale sarà in salvo attorno a un grumo di temi, climax e modalità narrative che basteranno a garantirgli una certa benevolenza da parte della critica e forse anche dei produttori. Non tutto fila liscio nel raccontare la vicenda di Matt e Max e della loro cerchia. Pazientiamo sulle inutili citazioni letterali di autori ammirati, da Rivette (nome di uno del “coro” di amici e della di lui peperina sorella aspirante regista) ad Arcand. Ma i conflitti di Max con la madre sembrano quasi sempre appiccicati per fornire garanzia che sì, è lui, è lo stesso filmmaker di Mommy e dei precedenti lavori in una delle possibili varianti. Per non parlare degli (spesso) stucchevoli giochini con il quadro: dai quali si può pure cacciar fuori agevolmente un significato pertinente, ma all’ottavo lungometraggio continuare a manifestare stupore e (sospetto) entusiasmo come se si trattasse di un novello Fassbinder fa pensare che manchi – più che l’obiettività – la serenità di giudizio.
Ma si rischia di passare per perenni insoddisfatti e criticoni. Matthias & Maxime non ci impone supplizi, morali, lezioni esemplari. In questa ossessione che da parte dei due protagonisti è in superficie “solo” un’insoddisfazione, in questa festa triste che è la fine della giovinezza e, al medesimo tempo, la soglia di un nuovo inizio con Max che aspetta la partenza per l’Australia, ci sono incespicamenti e slanci che non provengono da una rimozione bensì da una specie di spleen mai ben identificato. E se fanno ancora capolino le accensioni liriche che in Dolan hanno sempre tanto peso (e spesso tanto pesano sulla ricevibilità, moleste come suonano), ci sono anche attimi che fanno boccheggiare e palpitare, come quando Maxime nel suo stentatissimo inglese chiede telefonicamente alla segretaria del padre di Mattthias una lettera di referenze che l’amico ha mancato di fargli recapitare. Non è una procrastinazione del loro rapporto, quella dei due protagonisti, non è neanche un’impossibilità, se non apparente. C’è intorno, e non dentro, un sentimento inappagato della vita come ritardo, asincronia, differenza, inspiegabilità e indicibilità di ciò che si prova e si desidera nel profondo. Il merito di questo film sta nel suo rimanere a cavallo di questa inadeguatezza mentre tutti i riti del passaggio all’età adulta si compiono. Non cogliere l’attimo: ed essere così tanto meno consolatorio di molti uguali film sul medesimo transito, con un’intuizione che si tiene alla larga dai grandi freddi e dalle grandi speranze.
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