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MEKTOUB, MY LOVE: CANTO UNO

MEKTOUB, MY LOVE: CANTO UNO

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Il destino dell’artista.

In fondo è tutto chiaro fin dall’incipit. Quando nelle prime battute Amin si reca a casa della sua amica Ophélie e la sorprende mentre, accaldata e infoiata, sta allegramente fornicando (1) con il cugino Toni, la cinepresa non riproduce la soggettiva del giovane, aderendo piuttosto alla dinamica dei corpi sudati e tesi dei due amanti, con inquadrature ravvicinate e nervose che li ritraggono in tutta l’istintività dei loro gesti. Amin è sì uno spettatore privilegiato e l’alter ego di Kechiche, ma è anche, per dirla con l’Alighieri, un uomo “schermo” all’interno di un film che contiene – in forma più diretta rispetto ad altri lavori di questo filmmaker – moltissimi tratti autobiografici.

Lo sfasamento e il depistaggio sono continui, in Mektoub, My Love: Canto Uno. Se la posta in palio è ancora, come nei precedenti film di Kechiche, quella dello sguardo e delle sue responsabilità (2), il rischio dell’atto di osservare è sempre vivo, ma diviso a metà con il titubante protagonista. Dove guarda Amin? E dove guarda Kechiche? Intanto, c’è da dire che chi si ferma alla superficie ha certamente torto. La prima sequenza, quella già ricordata di sesso esplicito tra i due personaggi più inafferrabili e in qualche modo più vicini ad Amin, non ha il valore dell’anticipazione perché in seguito l’espressione della sessualità è onnipresente, ovunque allusa, e tuttavia mai più mostrata in modo diretto. Non è la ginecologia il centro del discorso, quindi tanto vale sbarazzarsene subito.

Se un’opera così fluviale e nella sostanza monotematica non risulta ripetitiva e trova un collante, è invece nell’istintiva interrogazione della realtà e della vita da parte del cineasta in erba Amin. Una realtà e una vita che sono così piene, esorbitanti, stranamente oppressive, nelle lunghe giornate di sole, giochi e chiacchiere in riva al mare come in quel giorno “artificiale” che sono le scatenate notti in discoteca. C’è luce dappertutto, e luce c’è anche nell’obiettivo della macchina fotografica dello studente di medicina attratto dal cinema. Ci sono corpi che occupano tutto lo spazio, che ostruiscono e accecano la vista (nessuno ha notato che in pressoché tutti i momenti nei quali Kechiche lascia che il riverbero del Sole esploda incontrollato dentro il quadro è in scena proprio la giunonica Ophélie, massa incontrollabile di gioia e desiderio?).

Mektoub, My Love: Canto Uno non è, come si è detto, un inno alla sensualità senza freni della giovinezza, se non in superficie. E non è nemmeno una vittimistica confessione di precoce autoesclusione dal mondo, come potrebbe sembrare dall’atteggiamento che Amin mantiene in ogni circostanza (si veda anche la fallita seduzione della modella russa, prima del finale sulla spiaggia con la sensibile Charlotte). È invece una sofferta presa di coscienza dell’agonismo di qualsiasi rappresentazione e creazione. Un film sul cinema e sull’arte come lotta senza sosta all’informe e al Caos, che nella visione del regista può essere tentata con successo solo se si assume su di sé il massimo grado di rischio e ci si batte per evitare il coinvolgimento totale (e distruttivo di ogni ordine possibile, come accade con l’irruzione dell’eros) con l’oggetto della propria visione. Molto più che nel morboso, al quale parrebbero rimandare l’estenuante lunghezza dei piani sequenza e l’infinita acribia con cui vengono ripresi i dialoghi nei suoi film, la cifra del cinema del regista franco-tunisino, al suo sesto lungometraggio, va ormai rintracciata nel tragico. Assume allora un significato ben preciso il titolo del film: Mektoub, My Love sta a indicare l’irresistibile attrazione verso un destino di artista costretto al corpo a corpo con la materia delle sue ossessioni. La violenza di questo sentimento rende Amin (e Kechiche) “ambiguo”, inabile alle mediazioni rappresentate dall’abbandono e dal trasporto, in primis quello erotico, con cui si ritiene di venire a capo delle contraddizioni nella piccola cerchia dei suoi giovani amici e dei suoi parenti. Amin trova un’oasi di pace e il suo compimento solo nel gesto di creare e di cogliere un senso, qui rappresentato dalle sue riprese della nascita di due agnellini: riprese notturne (non a caso), sottolineate dall’armonia della musica classica (opposta alla martellante tecno della discoteca), anch’esse irte di difficoltà per chi deve mantenersi sempre vigile onde non lasciare scivolare via quegli attimi preziosi in cui un equilibrio miracoloso e un capolavoro sembrano realizzarsi.

(1) Il termine aulico mi auguro che me lo passerete, considerata la citazione del Vangelo di Giovanni nella primissima sequenza…

(2) In tal senso il vertice del cinema di questo regista è Venere Nera, da molti deprecato a ben vedere proprio per la sua radicalità; mentre il monocorde La vita di Adele ha guadagnato consensi critici molto eccedenti i suoi meriti.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.