Il privato come senso della (vicinanza della) morte.
Il film di denuncia che Margherita (Buy) gira tra scioperi che degenerano in violenze e scene di triste quotidianità dentro un’azienda in subbuglio si intitola Noi siamo qui. Nanni Moretti non esita a farcelo vedere più volte durante le sempre più surreali riprese in cui il divo Barry (John Turturro) non riesce a ricordare le giuste battute. Come a certificare una presenza. In un film che è tutto un lungo, soffocato, amaro addio, si ha bisogno di credere che qualcosa nonostante tutto c’è, rimane. Fosse pure un film un po’ sgangherato con regista e attore che si prendono molto sul serio.
Con i suoi ultimi lavori Nanni Moretti ha gettato infine la maschera. Non lo ha fatto di punto in bianco, provando viceversa tanti “schermi”, persino quello del nemico Berlusconi nel Caimano. Perché quello che è sempre stato preso per un paradossale moralista politico o un indefesso predicatore laico, in realtà si è invece fin dall’inizio sentito soprattutto un profeta scettico, spinto al vaticinio quando avrebbe più volentieri abbracciato e perlustrato ogni anfratto di un dissidio intimo lungo ormai quarant’anni. E se i conti con Pasolini, per quanto possibile, Moretti li aveva già regolati alla fine del primo episodio di Caro Diario in una sequenza senza più parole da spendere, con quel pubblico e quella critica che hanno prolungato il suo personaggio oltre misura ha giocato una partita che riecheggia quella di Palombella Rossa: che soltanto col senno di poi acquista un senso assai meno metaforico e “resistenziale” di quello che si poteva finora credere.
Non si tratta, con Mia Madre, di mettere in scena una morte, uno spegnimento tanto paventato quanto atteso, questo almeno mi pare chiaro. Quanto di attestarne una presenza che si fa via via più consustanziale, prendendo forma nei modi e nei tempi meno consoni, previsti, soliti: come quando Margherita si sente del tutto fuori posto tra suppellettili borghesi che non sono davvero sue, tra una bolletta scomparsa, una scatola da biscotti, un allagamento improvviso. E il bisogno di non essere fantasmi a se stessi, stranieri di sé e prigionieri di schemi che nemmeno si riconoscono, prende il sopravvento con i cascami di un vitalismo che si smorza, ma rimane dentro, con quel qualcosa che non comprendiamo fino in fondo, ma c’è. È questo il passo avanti forse definitivo, rispetto anche ad Habemus Papam: più che di liberarsi di ogni residuo del morettismo – che in quest’ultimo film scompare praticamente del tutto – a Mia Madre riesce di essere completamente privato, scevro di costruzione (cosa che nel film precedente non era del tutto possibile, visto che Habemus Papam si presentava sempre anche come una possibile riflessione sul Potere, accanto al vissuto e al “sognato” dell’uomo-papa interpretato da Piccoli).
Persino l’abbondante scrittura di Francesco Piccolo in Mia Madre acquista una dimensione di sovrascrittura che non può corrodere uno scostamento che è nei fatti, nei tormenti di un’intimità che non si può comunicare, solo intuire, captare oltre la lettera. Film a tratti davvero travagliato, Mia Madre, perché davvero suo e solamente suo, di Nanni; tanto che le buffonerie di Turturro producono un effetto persino più forte, scatenando un divertimento tutto di reazione, di rimbalzo, a patto di partire dall’altro lato, quello del dramma, con il piede giusto. Certo, a qualcuno potrà sempre sembrare troppo “semplice”, il discorso di questo film. Ma è veramente così semplice raffigurare la morte come un’interprete costantemente in scena, appena nascosta dietro una quinta, senza farne uno spettro, un’assassina che ci scruta e attende? e al contempo non emettere un lamento e non piangersi mai addosso? Mia Madre lo fa. Ripercorrendo sentieri già battuti, riconoscendo i luoghi comuni (quel fare fino alla fine ciò per cui si è vissuto, si tratti di un film o di una traduzione dal latino), le azioni ripetute e quelle d’impulso (la scena in cui Margherita fracassa l’auto della madre), le derive (Giovanni che decide di lasciare il lavoro). Ma setacciando sul serio il vissuto e le sue a volte impercettibili differenze, l’essere pronti alla vita (e alla morte) e insieme il non sapere che cosa pensare di questa disponibilità. Un pendolo che muove lieve e con poche variazioni rispetto al passato cinema del regista, ma che insiste a oscillare sommessamente.
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