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MIDSOMMAR – IL VILLAGGIO DEI DANNATI

MIDSOMMAR – IL VILLAGGIO DEI DANNATI

Midsommar foto2

L’amore e l’orrore.

Amore fa rima con orrore. Certo, non è una novità: ma lo è nel momento in cui Ari Aster decide che orrore fa rima con famiglia. E con religione. Perché c’è un sottile (ma neanche poi tanto…) filo rosso che collega l’amore con la famiglia e con la religione, qualcosa di assonante con ossessione, probabilmente. Come in Hereditary prima, e come in Midsommar adesso (l’opera seconda è più compatta e coesa, più decisa), ossessione religiosa e fanatismo si insinuano nelle crepe della famiglia, mentre questa si sgretola sotto il peso del cambiamento. Un cambiamento che può derivare da diversi fattori: dalla morte, o dal mutamento della realtà circostante. Quando a cambiare è il luogo politico (nel senso delle circostanze sociali) dove l’amore pone le sue fondamenta, qualcosa va in frantumi, e le schegge impazzite invadono la realtà. È in questi interstizi che Aster punta la sua macchina da presa: un amore, una passione che sotto pressione cede e si trasforma, lascia il posto a qualcos’altro e lascia entrare l’orrore. Midsommar è la composizione bucolica di tutto questo: dove il melò cede il passo, o la forma, o il ritmo, al mistero che filtra la paura e la blasfemia, perché la religione insemina tutto, e germoglia assurdità un po’ dovunque: in questo twist stilistico sta la carta vincente del secondo passo di Aster, perché Midsommar è dilatato e teso, grottesco e spaventoso, è insomma un attrito continuo e irreversibile dal cui stridio nasce lo spaesamento, il perturbante, l’inquietudine, la paura. Da più parti si vedono (a ragione) derivazioni da The Wicker Man, ma si dimentica di citare le assonanze con The Sacrament: perché il film si muove tra quei due (non tanto) opposti, mentre indaga sulla follia dell’ossessione e sulla determinazione spaventosa – questa sì, realmente – dell’amore, spogliando la razionalità in piena estate, lasciandone essiccare le spoglie alla luce del sole a mezzanotte, lasciando indietro corpi esanimi, cadaveri ridotti a blasfemie.

La famiglia va in frantumi: la natura aborre il vuoto, e lo riempie con quello che trova. Nel villaggio di Harga quella che sembra una pacifica comunità produce figli da rapporti endogamici per sondare il senso del mistero, e sceglie di eliminare i suoi parenti troppo vecchi per amore. Sono tessere che cadono una dopo l’altra, è la normalità emotiva che va in pezzi, è un inevitabile crollo che distrugge lentamente tutto, e tutto travolge: quattro ragazzi e una ragazza si trovano al centro di tutto questo, “ruotando e roteando nella spirale che sempre più si allarga, il falco non può udire il falconiere; le cose si dissociano; il centro non può reggere; e la pura anarchia si rovescia sul mondo”; misurando i passi secondo l’estro di Yeats, il secondo avvento non è lontano, e il Male, subdolo, striscia inesorabile in una fotografia patinata di immagini bellissime, ma su cui la sottile regia di Aster sa imporre un senso di angoscia incombente, con una narrativa “ad imbuto” che stringe sempre più fino a non lasciare fiato, fino a puntare su quell’ultimo sorriso agghiacciante, incomprensibile forse. Midsommar non è un film facile, men che meno il solito horror da sala estiva: proprio perché si innesta nell’estate e sotto la sua luce più accecante e più torrida, una luce che sembra non lasciare ombre ma che illumina ciò che davvero fa paura. La visione di Aster è precisa come una lama: ancora di più che in Hereditary, il suo mondo è atroce e spietato, la sua regia anarchica e incontrollabile (ma non incontrollata) scardina le convenzioni e le convinzioni fino ad un capovolgimento finale che capovolgimento non è, perché deriva da mille segnali e indizi disseminati lungo un percorso che il pubblico decide di fare ad occhi chiusi, per non vedere ciò che non vuole vedere. Neanche e soprattutto di se stesso.

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Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.