La quinta avventura del franchise griffato Tom Cruise.
Dopo aver tentato nei primi episodi di impartire alla serie qualche velleità autoriale, prima con Brian De Palma (tentativo quasi riuscito, a suo modo “teorico”) e poi con John Woo (purtroppo vicino all’auto parodia del cinema del grande regista cinese) già dal terzo episodio, affidato a J.J. Abrams, il franchise di Mission: Impossible ha dimostrato di essere in tutto e per tutto un prodotto figlio dell’ego smisurato del suo interprete-produttore Tom Cruise. Ovvero una lussuosa vetrina per sequenze action sempre più improbabili ed elaborate, che vertono interamente sull’indistruttibilità ed infallibilità dell’agente dell’IMF Ethan Hunt. Di film in film si è cercato di mitigare l’implausibilità delle peripezie del supereroe Tom Cruise con robuste dosi di ironia, aggiungendo qualche riuscito componente al cast di contorno (su tutti Simon Pegg), ma arrivando anche alla spersonalizzazione totale di quella presunta autorialità che si voleva impartire ad ogni pellicola della serie, e doveva essere l’arma vincente di questa sorta di antitesi dei film di James Bond.
Poco cambia, quindi, se in cabina di regia si alternano J.J. Abrams, Brad Bird o, come in questo caso, lo sceneggiatore Christopher McQuarrie: la formula vincente al box office è stata collaudata, la sostanza non deve cambiare di una virgola, o quasi. Ethan Hunt è (di nuovo, è il quarto film della serie ad utilizzare questo espediente!) braccato dalla sua stessa agenzia, e agisce da fuorilegge per dare la caccia ad una pericolosa organizzazione terroristica (il “Sindacato”) di cui i governi americano e inglese negano l’esistenza. Tra doppi e tripli giochi, dovrà scegliere se fidarsi o meno di una bella spia inglese (Rebecca Ferguson, una rivelazione), e contare solamente sulla collaborazione di alcuni agenti dell’IMF che non gli hanno voltato le spalle. Rispetto al regista che l’ha preceduto, Brad Bird, McQuarrie punta su un azione più diretta, fisica e realistica, meno cartoonesca e dipendente dal digitale; si permette di citare Hitchcock (L’uomo che sapeva troppo, nella bella sequenza dell’Opera di Vienna, e Notorius – L’amante perduta), ma nel terzo atto si ingarbuglia in intrighi politici e verbosità che appesantiscono e rallentano il climax dello scontro finale. Le novità si fermano qui, ed è inutile cercare qualche sfumatura o richiamo all’attualità politica. Come i precedenti capitoli, anche Rogue Nation è uno sterile catalogo di sequenze action senza dubbio messe in scena con perizia e mestiere superiori alla media (l’ottima fotografia è affidata a Robert Elswit), su cui svetta l’incursione sottomarina nel maxi computer in Marocco e l’immediatamente successivo inseguimento in auto-moto, incollate tra loro da un esile quanto inutilmente intricato plot, che stenta a catalizzare entusiasmo e attenzione.
Se si cercano un paio di ore d’evasione senza troppe pretese, lo spettacolo può anche risultare simpatico. Ma, come gli ordini segreti impartiti all’agente Ethan Hunt nel corso delle sue missioni, il film rischia di distruggersi nella memoria collettiva nel giro di 5 secondi dal termine della visione.
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