La sovrascrittura di Baumbach.
La prima mezz’ora di Mistress America fa temere il peggio. Non ai fan imperterriti di Greta Gerwig, però per tutti gli altri la prospettiva di una variante business woman di Frances Ha è tutt’altro che incoraggiante: quando Brooke Cardinas entra in scena a Times Square, si ha la sensazione che avremo a che fare con la quintessenza di una moltitudine di personaggi indie ricchi di manie, slanci, tic e scoramenti da manuale di sceneggiatura (quello secondo Baumbach: ma in forme non troppo dissimili si potrebbe ripetere il discorso per Wes Anderson e per altri registi infatuati del loro stile e del loro modo di fare cinema).
Però poi per fortuna qualcosa cambia. Quando, per convincere l’ex fidanzato Dylan a investire nella sua idea di un ristorante, la trentenne Brooke/Greta va in trasferta con la sua strambissima posse – la diciottenne futura (?) sorellastra Tracy, il precedente ragazzo di costei e la gelosissima nuova ragazza di questi – il meccanismo di messa in scena dei personaggi ha un’accelerazione imprevedibile. Diventa man mano più chiaro che ognuno ruba la vita degli altri solo per trovarne una propria, o per scacciare la coscienza della propria inettitudine a vivere. Tracy sfrutta come una zecca gli spunti forniti da Brooke per scrivere una storia che la faccia entrare in un club letterario. La moglie di Dylan ha rubato (oltre all’innamorato) le idee di Brooke per una linea di magliette di successo. Ma anche l’ex ragazzo di Tracy passa con disinvoltura da lei alla nuova fidanzata, mentre la stessa Tracy continua a mostrarsi più intraprendente e meno inoffensiva di quanto non sembri in un primo momento, provocandolo e mettendolo alla prova. Tutti slittamenti dei ruoli che fanno pensare più ad un processo di sovrascrittura delle parti, come se ci si trovasse su un palcoscenico perenne, nel quale ogni attore arrivasse al proscenio e declamasse il suo improvvisato e stranito monologo una volta preso atto dei nuovi cambiamenti apportati al copione dagli altri. Uno sviluppo reso palpabile dalla recitazione caricata ed enfatica e che può convincere o no, ma che a noi piace per come squilibra situazioni e maschere troppo consolidate, pur non facendosene sicuramente beffe.
Nulla di eccezionale quindi, forse troppo poco per salvare la giornata, ma è comunque una piccola sorpresa trovare una scrittura più accidentata del solito nell’economia di un film di Baumbach, il quale dopo il discreto Margot at the Wedding (Il Matrimonio di Mia Sorella, 2007) sembrava sempre più compiaciuto della sua facilità di racconto, imbottendo tutto di cliché anche quando aveva una felice idea di partenza per rovesciarli, come in While We’re Young (Giovani si diventa, 2014). Non è improbabile che il parziale successo di Mistress America sia da imputare anche alla Gerwig, che deve aver lavorato sullo script per ridimensionare l’eccessiva artificiosità dei dialoghi e tentare di (far) maturare anche il suo personaggio (come attrice sconta però ancora l’adesione a tipi da commedia troppo “imparentati” tra loro, che la confinano a una varietà interpretativa limitata). Mistress America, mentre ostenta una flânerie che indigna chi teme di vedere sempre l’identico nel cinema di Baumbach, è il timido segnale che forse l’autore di Brooklyn non ha del tutto esaurito il bonus.
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