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La chiusura del ciclo di Craig.

Il nuovo corso di 007 era cominciato quindici anni fa in Casino Royale, con una grande partita a poker durante la quale James Bond rischiava di morire per l’avvelenamento del suo cocktail: una delle sequenze di certo più tese per lo spettatore, con l’eroe che si salvava per il rotto della cuffia grazie al defibrillatore e al provvidenziale intervento di Vesper Lynd. Ora che il cerchio si chiude, sappiamo che non c’era nulla di casuale: la cinquina di film interpretati da Daniel Craig porta alle estreme conseguenze – con coerenza che si può soltanto ammirare – le premesse di un Bond diverso, più tortuoso e adeguato all’aria del tempo, più uomo che vive i tormenti del Ventunesimo Secolo e meno icona invincibile di fulgore planetario. Si arriva alla mano finale del gioco e si tratta cioè di vedere, se si tratta di un bluff oppure no, se questa riscrittura del personaggio abbia attecchito davvero o meno.

Sarà allora per questo che No Time To Die sfonda ampiamente il muro delle due ore e mezza, cosa mai avvenuta in precedenza nella saga, anche se i film con Craig hanno – con l’eccezione di Quantum of Solace – una durata largamente superiore a quelli del passato. La complessità del discorso sviluppato da un ciclo che appare improntato all’essere, forse, in tutti i sensi autoconclusivo richiede un’elaborazione e un disegno più ampi che chiudano tutte le tracce e i motivi della pentalogia iniziata tre lustri fa (si pensi solo, per dirne una, alla “parabola” dell’agente CIA e amico di Bond Felix Leiter il quale, dopo essersi visto divorare una gamba da uno squalo in Vendetta Privata (1989), riappariva nel 2006 del tutto integro oltre che afroamericano – questa seconda cosa sorprendeva meno, ovviamente).

Ma per questa articolazione composita c’è un prezzo da pagare, e forse il modesto Cary Joji Fukunaga non era il regista migliore per farlo. Poche storie: vedendo No Time To Die si ha la sensazione di assistere a una dissezione psicologica, a una rimozione di tutte le maschere possibili dell’eroe (addirittura usurpato per gran parte del suo marchio 007 – “è solo un numero” – andato a un’agente peraltro non abbastanza caratterizzata come la Nomi di Lashana Lynch). E se il suo antagonista e doppio Lyutsifer Safin (un Rami Malek che non regge minimamente il confronto con Javier Bardem/Silva di Skyfall) porta sul volto una maschera crepata, la direzione in cui scavare diventa ancora più lampante.

Il prezzo da pagare, si diceva. Il problema principale di No Time To Die è che per tirare le fila della mini-saga di Bond/Craig ci si impaluda nella ragnatela fin troppo tessuta di un film quasi esistenzialista dalle implicazioni tragiche che sarà anche nelle corde dell’autore della prima stagione di True Detective, ma smarrisce dentro il thriller da camera le ragioni più ampie del franchise, a cominciare dalla componente action, qui davvero modesta (il meglio è di certo l’inseguimento a Matera prima dei titoli di testa). Il risultato è quello di un Bond che a tratti non è realmente né carne né pesce, in parte devitalizzato e in parte alla ricerca di una precisa collocazione, come un Jason Bourne del caso. Sarà pure un segno dei tempi e dell’identità liquida se abbiamo un James ormai più prossimo alla disillusione romantica degli eroi di Sam Peckinpah che al self control e alla (pre)potente assertività del passato. Ma limitarsi a vedere il bicchiere mezzo pieno del coraggio di proporre qualcosa di inaudito nell’universo bondiano, ignorando le manchevolezze, rimarrebbe un atteggiamento da fan, anche se in apparenza paradossale.

voto_3

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.