La strada e l’itinerario.
Via dalla ghost town di Empire (un toponimo in cui l’ironia e la malinconia si saldano), nel Nevada, per spostarsi lungo un pellegrinaggio in the middle of nowhere: tale è la parabola intrapresa da Fern a seguito della morte del marito, la perdita del lavoro e la fine della stabilità personale. Se il protagonista di The Rider – Il sogno di un cowboy non aveva una seconda identità dopo aver perso quella di cowboy, la donna al centro del nuovo lavoro di Chloé Zhao che ha sbancato Venezia aggiudicandosi il Leone d’oro non ha letteralmente più una casa, un luogo fisico dove vivere e rimanere radicata: facile in questo senso comprendere la differenza tra homeless e houseless che Fern stessa propone in una battuta di dialogo.
A Fern rimane solo il suo van, come scelta di principio e di dignità di fronte al destino del non luogo che sembra sempre più essere l’America che attraversa e dalla quale si distingue come meglio può. Se infatti la ricerca identitaria può apparire ancora determinante e ad essa si ricollegano gli incontri con gli altri nomadi e le loro più o meno improvvisate comunità, Fern è anche orgogliosamente diversa. Sa citare Shakespeare a memoria e, se fa vari lavori di merda e s’impiega persino alla catena di montaggio di Amazon come stagionale, in realtà non si mescola, non si integra davvero, non fa parte del novero né ha i tratti di chi si arrende alle circostanze e si piange addosso; semmai le confronta per confermarsi nella sua serenità, in una forma di distacco stoico di fronte ad un mondo che appare indifferente, ad un panorama che si staglia come immutabile.
Il libro di Jessica Bruder a cui il film si appoggia può far pensare anche al più noto e polemico Una paga da fame di Barbara Ehrenreich, atto d’accusa al paese più ricco del mondo che non permette a tanti suoi cittadini di arrivare alla fine del mese; ma il tono dell’opera di Zhao – come già nel film precedente – non prende la via del pamphlet politico e non vuole nemmeno essere e tantomeno apparire come un reportage d’inchiesta o una denuncia (benché sia prevedibile un uso di questo tipo da parte dei media). Si tratta piuttosto – e in questa direzione va la recitazione funzionale di Frances McDormand – di una rivendicazione umanistica verso l’ambiente circostante incapace di soddisfare l’anelito ad avere un posto in cui stare, a sentirsi nel luogo giusto per se stessi.
Se il ciglio rimane però asciutto rispetto a quello che accadeva con il precedente film della regista è proprio per la prevalenza insistente di questo piglio, per questa indole difensiva e questa consapevolezza di Fern che non scioglie i nodi con l’amor di sé. Fern non vuole etichette, non cerca la sua dimensione perché sembra già averla trovata nel rifiuto di domandarsi come ricostruire qualcosa di alternativo dopo che il primo sogno (che forse non era tale) si è sgretolato. Non si prende la responsabilità di essere debole, ostenta la sua resistenza e, anche se non ci suona in generale come eccessiva, ci rimane spesso lontana e un po’ indifferente, del resto sembra proprio ciò che questo personaggio vuole in tutto il film: rigetta l’offerta della sorella di fermarsi presso di lei (e può apparir dignità), si avvicina ad altri che vivono come lei e ascolta le loro sventure e i loro drammi, ma non li riconosce come degli autentici compagni di viaggio, forse per lei sono più dei termini di paragone o dei sollievi momentanei.
Nomadland ha un profilo bifronte, una contraddizione ben incarnata nella musica “autosufficiente” di Ludovico Einaudi: da un lato chiede la partecipazione dello spettatore, ma dall’altro si identifica solo con lo sguardo della sua protagonista e respinge non soltanto la pacca sulla spalla – il paternalismo che nulla risolve – ma l’apertura alla possibilità di cercare insieme ed interrogarsi davvero. È un film che ha già deciso la strada, sia pure senza predisporre un itinerario: e come tale si guarda. A distanza e paradossalmente senza (tanto) impegno.
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