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La differenza tra guardare e vedere.

Sembra proprio che la fantascienza stia cercando di trovare non solo nuove strade, ma proprio di rifondare le sue poetiche per declinarsi attraverso le suggestioni e l’immaginario del presente.

Certo non è cosa che si fa con due o tre film: e infatti, i due punti cardine di questa tendenza (due film seminali e sugli alieni) Signs – 2002 – e Nope – 2022 -, sono opere uscite a distanza di due decenni tra di loro, ma che potrebbero benissimo inquadrare un tipo di fanta-horror che utilizza e distorce l’abduction per riuscire a parlare al pubblico di qualcosa di straordinariamente intimo e attuale come a loro tempo 2001 Odissea Nello Spazio e Solaris fecero con il pubblico degli anni ’70, unendo il genere a profonde riflessioni filosofiche. Parlare cioè di noi.

Che Nope poi sia un film (straordinario) sul cinema è indiscutibile: ma la grandezza dell’opera terza di Jordan Peele sta proprio nel mascherare con una storia inquietante sugli UFO – o quello che è, ma meglio lasciare in ombra la questione per chi non ha visto il film – una miriade di sottotracce e di percorsi perfettamente funzionali alla trama.

Guardando quindi Nope c’è la sensazione, anzi, la tensione della consapevolezza che oltre a quello che guardiamo e vediamo ci sia sempre altro, con chiavi di lettura le quali si sovrappongono l’una con l’altra. Immaginando un western fantascientifico come pochi (nessuno?) prima.

C’è tanto Shyamalan in questo film, e non solo per l’accostamento fatto sopra con Signs: ma soprattutto per quella voglia di stupire il pubblico chiudendolo dentro un labirinto di specchi e scatole cinesi, senza aver paura a ricorrere a (abilissimi!) trucchi di prestidigitazione che riecheggiano anche il primissimo Argento – tutti i titoli di testa mostrano in maniera subdola ciò che si potrà capire solo alla fine. E sicuramente, c’è la consapevolezza che con Scappa – Get Out prima, e con Us poi, l’autore del film abbia aperto la strada all’evoluzione horror-thriller della satira antropologica e sociale del cinema del nuovo millennio.

Spesso per capire il senso primario di un film si parte dal titolo, e allora facciamolo anche noi: nope è grammaticalmente un termine di origine americana, un avverbio usato come interazione con una “p” finale molto enfatica che carica di senso la parola. Insomma, NO: no allo showbiz, NO al sogno – che ormai è diventato un incubo – americano, NO allo sguardo senza visione che appiattisce, non distingue.

Perché il villain della storia ha la sua potenza negli occhi, nello sguardo, nella visione: ed è anche così matericamente arioso, vasto e aereo che può inglobare e volare su tutto. Proprio come il cinema, e il suo livello di commercializzazione di oggi, ha inglobato, ingoiato e dimenticato quei primissimi fotogrammi che erano il suo vagito, il fantino di colore ripreso nel 1878 nel primo film mai girato; come l’industria di Hollywood, con le sue propaggini oscene dove lo spettacolo è un’ossessione verso le immagini, anche di cose dalle quali vorremmo/dovremmo scappare ma dalle quali invece siamo inesorabilmente, inevitabilmente attratti. Un’industria dove il soggetto dello spettacolo divora letteralmente chi lo guarda che non ne riesce a capire la violenta pericolosità.

Peele continua, riprende e approfondisce il suo percorso metacinematografico, larvato in Get Out, più dichiarato in Us, adesso smaccato: che riflette la sua attenzione mai nascosta verso quello che c’è sotto la superfice di Hollywood. Ovvero una pletora di personaggi che popolano il sottobosco industriale e sociale (nello specifico, hollywoodiano) e che sgomitano per uscire dall’anonimato, scontrandosi con l’orrore di una società che però si ciba di loro e della loro anima.

Con Nope siamo allora chiamati a riformulare la nostra grammatica, il nostro immaginario, attraverso il nostro sguardo. Se negli anni 90 i sogni sono definitivamente morti dopo l’edonismo del decennio precedente, era necessario riformularli prima attraverso la diegetica tarantiniana che ha fondato il postmoderno sullo schermo; e in seguito ricalibrarli insieme alle nostre esistenze. Nelle quali, oggi più che mai, la differenza tra guardare e vedere rappresenta realmente la differenza fra vivere e morire.

voto_5

Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.