Le macerie della vita.
Il cinema di Mario Martone è un monolite, spesso e a tratti inaspettatamente impenetrabile, denso come il senso di un mondo artistico, quello del suo autore, che è sempre coerente a sé stesso, intride le sue storie, i suoi attori, le sue immagini.
Ed è come un elastico che si allunga attraverso il tempo: si espande fino al suo massimo volgendosi indietro, per poi tornare al punto di partenza con qualche – impercettibile, ma c’è – crepa in più.
Nostalgia è, fin dal titolo, riassunto, passo in avanti (e indietro, nel senso metaforico) e apoteosi di questa filmografia che prima lentamente, poi sempre più velocemente, porta avanti una riflessione precisa, lucida e inesorabile su di noi: se tra L’Amore Molesto e L’Odore Del Sangue sono trascorsi quasi dieci anni, con in mezzo la magnifica parentesi a cavallo tra grande schermo e palcoscenico di Teatro Di Guerra, tra il 2018 e il 2022 si sono succeduti ben quattro film, in una sorta di escalation a tappe che zigzaga tra la storia d’Italia (Capri-Revolution), quella culturale (Qui Rido Io e Il Sindaco del Rione Sanità) e l’indagine intima e personale, che mette il punto col piccolo capolavoro con Pierfrancesco Favino protagonista.
Nostalgia si è presentato a Cannes come un piccolo miracolo di compattezza visiva, e il suo regista si mostra senza inutili pudori innamorato dei suoi vicoli e delle loro atmosfere malmostose, provando e riuscendo a tradurre in immagini quelle sensazioni. Napoli è un vero e proprio teatro di guerra, nel senso suggerito di una battaglia, una ricerca di qualcosa che può essere elusa, con al centro il cuore dell’artista: come disse proprio Martone qualche anno fa, “la disillusione non diventa mai cinismo, è piuttosto uno sguardo lucido sulla realtà e insieme sulla forza delle illusioni”, a proposito proprio del suo Teatro Di Guerra (1998). Una dichiarazione che calza a pennello al suo ultimo lavoro, un film che restituisce alla perfezione il senso si spaesamento in una città che diventa mondo esteriore ed interiore, spaesamento ancora più vertiginoso nel momento in cui, come si diceva sopra, il tempo proprio come un elastico si distorce sotto la pressione della nostalgia – intesa nel suo profondo senso etimologico, dal greco nostos e algia, rispettivamente dolore e ritorno - e rende difficile riallacciarsi nel modo giusto con il presente.
Rappresentazione perfetta e dolorosa, l’immagine – mastodontica – del protagonista Felice (Favino) che prende in braccio l’anziana madre (Aurora Quattrocchi) per farle il bagno, riportando lui stesso la situazione ad un cambio di prospettiva e ruoli tra madre e figlio. Una prospettiva riutilizzata anche nel frequente ritorno del doppio nella trama: la dualità di Felice tra Il Cairo e Napoli, tra l’Islam e il Cristianesimo, tra la moglie bella e moderna e la madre anziana e cadente. Dualità che riportano alla difficoltà di stare in un territorio ben definito da parte del personaggio al centro del maelstrom napoletano, lacerato da un dissidio profondo, diviso in due identità ben definite che però vivono in due momenti temporali differenti, il passato e il presente. Che si traducono nello svolgersi narrativo nei due personaggi tra i quali si dibatte Felice: il parroco Don Luigi (un incredibilmente possente Francesco Di Leva) che è il presente, e il criminale Oreste, amico d’infanzia e adesso boss malavitoso che vive nell’ombra (oscuro e spaventoso Tommaso Ragno), che è il passato. Alla fine, tutto si risolve allora in uno scontro silenzioso ma inesorabile, che non può che concludersi con una caduta, una sconfitta: le crepe della vita e del tempo sono troppo profonde per non lasciare solo macerie, e devastazione totale.
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