Un discorso senza zone d’ombra.
Se la prima inquadratura è quella, molto picassiana, di un dipinto intitolato Solos los muertos han visto el final de la guerra (opera del giovane Omar Rodriguez-Graham, il titolo è una citazione platonica), è subito chiaro come Michel Franco non abbia intenzione di risparmiare niente allo sguardo dello spettatore e intrattenere con quest’ultimo un discorso che non sarà mai incline al compromesso. Non ci sono zone d’ombra in un film che in particolar modo nella seconda parte è filmato quasi tutto dentro l’ombra della notte e del potere come delle celle e dei viali illuminati solo da pochi bagliori, spesso di armi da fuoco che sparano, e non in aria. Molti se ne sono indispettiti e risentiti: un hobbesiano teorema della brutalità, una distopia a mulinello in cui il ruolo di chi guarda è ridotto all’impotenza di dover assistere a efferatezze e crudeltà di tono quasi pasoliniano, non potendovi rintracciare il bandolo di un ragionamento metastorico.
Eppure c’è così tanto cinema in Nuevo Orden che le cadute (che non mancano, specie nella seconda metà, sicuramente quella più programmatica con l’insistenza sulla cecità dei ricatti dei militari) sono a loro volta prodromi di ulteriori rilanci. Franco non arretra e sul finire, certo non senza qualche grammo di compiacimento, taglia via anche l’ultima adesione emotiva agli spettatori che si fossero identificati empaticamente con la figura di Marianne, unica rappresentante dell’alta borghesia che sembra almeno incline a rivolgersi con pietas verso le classi subalterne e agire senza calcoli in loro favore, aiutando Rolando e la moglie bisognosa di un’operazione. Classi inferiori che non ricevono peraltro migliore trattamento, se le si mostra mentre si rendono protagoniste di rapaci saccheggi e uccisioni a sangue freddo senza ritegno e appaiono completamente calate in un’idea della loro strumentalità nella società di questo Messico immerso in una dimensione spaziotemporale astratta, tutta da indovinare e tutta ancora da percorrere.
Tutti bruti, tutti colpevoli dunque? È questa la morale di questo carnevale di sangue e morte? Facile sostenerlo e farsi scudo di argomentazioni del genere. In realtà no, o meglio, è sempre una questione di avere polso registico fermo se un fil rouge chiaro e forte lo si ritrova comunque nella alternanza, ottenuta attraverso il montaggio (che fa a volte pensare a La Battaglia di Algeri, citato dallo stesso Franco come ispirazione e visibile anche nel largo uso che la regia fa della camera a mano), tra le dominanti geometriche dell’esercito e dei ricchi, per esempio nella scena del funerale, e la perdita delle forme a seguito dell’insurrezione: come nelle sequenze dei corpi martoriati all’ospedale o nel labirinto senza soluzione di continuità dei soprusi e degli omicidi nella villa durante l’assalto. Come a dire che i tratti e le apparenze restano distinti, benché questo non sembri mettere ordine alla Storia né propugnare necessariamente un punto di vista sopra gli altri. Forse è questo che Franco vuole dirci, ossia che in un mondo fatto solo di uomini ottusi che si lasciano trascinare con inerzia dal loro limitato orizzonte sociale e di classe non c’è spazio per opportunità di sviluppo che vadano oltre il puro consumo e il muro contro muro della contrapposizione tra garantiti e sventurati. Neppure se tale prospettiva appare lampante, incalzante e più che mai come unica alternativa alla barbarie e all’arbitrio in cui nessuno può più essere al sicuro. Forse è semplice, ma da un punto di vista che solo con molta difficoltà potrei ritenere progressista non mi pare la più peregrina delle idee.
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