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Una riflessione ombelicale.

Mettiamola così: quando un film vuole coprire un arco temporale che costringe i suoi interpreti ad invecchiarsi, parte male in partenza. Perché ci hanno provato in tanti, con le migliori intenzioni e con i migliori attori, ma a memoria non c’è riuscito nessuno a rendere credibile il tempo che passa aggiungendo rughe posticce sul volto dei personaggi (da Muccino a Scorsese, da Fincher a Yates), ma nessuno ha raggiunto il grado minimo di credibilità richiesta per un coinvolgimento emotivo.

E dire che Ferzan Ozpetek, come artista e come uomo, è più che apprezzabile e amabile: con una sua idea ben precisa di cinema, un suo universo poetico e una certa predisposizione a declinare la Storia attraverso le emozioni private. Per questo duole dirlo, ma la visione di Nuovo Olimpo, il suo quattordicesimo film distribuito questa volta non in sala ma su Netflix dal 1 novembre 2023, sfiora l’accanimento terapeutico: a conti fatti solo un terzo (matematicamente, e a stento) della produzione del regista turco con cittadinanza italiana si salva, mentre il resto, compresa questa ultima fatica, si disperde in mille rivoli inutili.

Nuovo Olimpo, diciamolo subito, è proprio un film per la tv: perché manca ormai l’urgenza, manca una messa in scena che giustifichi il grande schermo (ormai questo conta, eccome), quindi diventa l’ennesima, lievemente pruriginosa e prevalentemente ombelicale ossessione del suo autore che si snoda per due faticosissime ore. Suona tutto fazioso, forzato, fastidioso, come l’ultima sequenza sui titoli di coda: che il sottofondo musicale (il brano di Mina Povero Amore) vorrebbe straziante epilogo di un amore inseguito e raggiunto troppo tardi, e che invece diventa ostinata protervia a tornare negli stessi luoghi, con gli stessi volti, per gli stessi sentimenti. Ci sono i dolci e il cibo metaforizzato e non; c’è l’amore che sfida il tempo e che forse resiste ed esiste proprio per la sua mancata consumazione, c’è la passione e ci sono gli enormi saloni nei quali si consumano amplessi e dolori.

Insomma, c’è il cinema di Ozpetek riassunto però per difetto e per mero accumulo: perché alla fine a mancare è l’emozione. Non la sincerità, perché il regista parte da un ricordo autobiografico e racconta le due passioni della – sua – vita, ovvero il cinema e l’amore per l’amore. Eppure alla fine quasi niente funziona, soprattutto perché la storia è affidata agli sguardi stolidi di Andrea Di Luigi (assolutamente inadeguato) e Damiano Gavino: e basta dare uno sguardo agli occhi di Greta Scarano che con due battute se li mangia tutti e due.

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Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.