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Profondo nero.

Occhiali Neri è il 19simo film di Dario Argento atteso al varco da dieci anni, ovvero da quel Dracula 3D che a posteriori può essere visto come l’ultima parte di una supposta trilogia (sulla carta) che rappresenta la parte più stanca di un corpus filmico così denso da dare ancora oggi senso, a cinquant’anni da L’Uccello Dalle Piume Di Cristallo, a numerose rivisitazioni e riletture, nonché periodiche rivalutazioni.

Tutto questo per dire che il film, sceneggiato da Franco Ferrini e dallo stesso regista ma nato diversi anni fa, come è testimoniato anche nel libro Paura del 2014, per quanto non potesse ontologicamente porsi all’altezza di monumenti come Suspiria e Inferno, riesce invece ad arrivare alla pregnanza di senso che avevano Trauma e Nonhosonno, peraltro film di per sé “minori” ma non certo sbagliati, e anzi forse superarla: con Occhiali Neri il caro Dario dimostra, ad 81 anni suonati, una consapevolezza di sguardo invidiabile. Chi altri, se non lui, potrebbe citare apertamente L’Eclisse di Antonioni, fare sua l’inquadratura e renderla contemporaneamente uno degli incipit più fulminanti degli ultimi anni horror?

Il film si apre con una vera e propria dichiarazione d’intenti. È dal 1970 che Argento usa l’horror – suo campo di lavoro prediletto che ha saputo ricreare a sua immagine e plasmare per il cinema che è venuto dopo rendendosi lui stesso autore irrinunciabile – per indagare la fallibilità dello sguardo, la potenza della visione, e insieme cortocircuitarle e metterle a confronto con l’osservazione della realtà e la sua imprendibilità ed estrema scivolosità. Una realtà che coincide con un mondo anarchico e rabbioso dove la civiltà, per quanto provi, non riesce a prendere pace risultando sempre invasa dalla follia e dalla violenza, rappresentate da una natura oscura – il bosco – e ribelle – gli animali.

In Occhiali Neri c’è tutto, ma proprio tutto: l’ossessione per lo sguardo (negato), la natura selvaggia, persino le donne libere che devono fare i conti con le ossessioni/pulsioni sessuali e psichiche di un killer, questa volta però senza whodunit, insomma una sorta di summa dell’ideologia argentiana declinata ai giorni nostri. E quindi un po’ edulcorata, un po’ diluita, ma molto spesso (fortunatamente più spesso che in La Terza Madre, altro film che avrebbe bisogno al più presto di una re-visione critica) emerge prepotente. Come nelle sequenze forsennate dell’assalto dei serpenti nel torrente o nel feroce sbranamento del volto ad opera del cane; o ancora nell’incidente che dà lo start alla storia, o nel truce primo omicidio.

Ancora più interessante, però, è un veloce frammento del prefinale: quando il killer sta inseguendo la protagonista Ilenia Pastorelli, dopo aver ucciso la sua amica e istruttrice Asia Argento, senza nessun motivo narrativo e neanche teorico la sua figura emerge dal buio totale, scarsamente illuminata da una luce di un rosso acceso. È anche questa una dichiarazione d’autore. È il segno di un Autore che progressivamente si è sempre di più disinteressato non tanto alla trama dei suoi film quanto alla loro coerenza logico-narrativa, frammentando il percorso logico a favore di uno svelamento che va avanti per immagini, per schegge impazzite, per segmenti di un puzzle impossibile da riordinare.

Ed è anche in questo l’Argento originale ed originario: un regista che non rincorre lo spettatore (non l’ha mai fatto, d’altronde), ma lo invita ad entrare nel suo mondo oscuro perdendo ogni coordinata spazio-temporale. Ed è per questo che i dialoghi sono tutti apertamente telefonati, per questo non viene mai richiesta agli attori una recitazione realistica che invece lascia il posto ad interpretazioni letterali, riportando i loro personaggi al ruolo di pedine di una scacchiera in mano al regista, unico demiurgo di un’azione che segue i contorti labirinti della sua mente.

Seguendo queste tracce si arriva e anzi si torna al regista che più di altre volte diventa autoreferenziale, autocitandosi: l’accostamento più immediato è certo quello di Tenebre, (dall’abbigliamento del personaggio principale alle piazze di città abbaglianti; fino all’aperta citazione di alcune scene) così come più velato arriva Il Gatto a Nove Code: ma nella prima opera si poneva l’oscurità del titolo, breve, icastico, in aperto contrasto con la feroce luminosità delle sue scene, che si dilungavano in lunghi carelli. Qui invece con l’eclisse lo schermo si spegne: l’oscurità che Argento ha sempre indagato ingoia tutto e tutti. Come già altre volte in passato anche qui, senza alcun pudore, il regista identifica la mdp con lo sguardo (il suo) in soggettiva, ammettendo candidamente la scopicità del (suo) Cinema e la totale identificazione dei film con il loro autore.

Il mondo di Dario Argento è colorato quindi da un profondo nero: ci si arriva dai blu, rossi e verdi accesi, si passa per un bianco accecante, ma si finisce sempre nel nero. Dove l’unica soluzione di sopravvivenza è l’istinto, quella forza primigenia senza sovrastrutture né logica che impregna Occhiali Neri.

voto_4

Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.