Crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire (Cesare Pavese).
A due anni di distanza da Glass, terzo e ultimo capitolo della sua saga teorica sui supereroi, e dopo le prime due stagioni di Servant, la sua seconda incursione nelle serialità televisiva dopo Wayward Pines, M. Night Shyamalan torna al cinema con l’atteso Old, ispirato al graphic novel francese Castello di sabbia di Pierre Oscar Lévy e Frederik Peeters, che in certi passaggi ricorda L’angelo sterminatore di Luis Buñuel
Alcune famiglie ospiti di un resort di lusso in un paradiso tropicale vengono invitate dal direttore della struttura a passare una giornata al mare in una piccola insenatura nascosta dove ha luogo una spiaggia incontaminata circondata da un suggestivo e imponente promontorio roccioso. Quella che avrebbe dovuto essere una giornata felice, spensierata e rilassante si trasforma nel peggiore degli incubi, con l’angolo di paradiso tramutato in una trappola mortale senza via d’uscita.
A più riprese, durante la visione del nuovo lavoro del regista d’origini indiane, viene in mente un titolo epocale del piccolo schermo che nei primi anni del nuovo millennio ha profondamente cambiato e rivoluzionato la serialità televisiva, tanto che ci si potrebbe spingere a dire che Old sta al cinema come Lost sta alla TV. Probabilmente, in entrambi i casi, la folgorazione e l’entusiasmo iniziale hanno dovuto fare i conti con la perplessità mista a delusione per come si concludono il film e la serie.
In Old l’impronta di Shyamalan, che con buona pace dei suoi detrattori resta uno degli autori più importanti e interessanti del cinema americano contemporaneo, è evidente e palese da subito, a partire dai temi trattati, dai twist narrativi, dal taglio e dallo stile registico, dalla magistrale costruzione della tensione e della suspense fino all’immancabile e gustoso cameo nei panni dell’autista del pulmino che conduce i malcapitati ospiti del resort alla spiaggia paradisiaco-infernale. Shyamalan si ritaglia qui il ruolo del regista carnefice, impegnato a filmare, spiare e osservare dall’alto i suoi interpreti, in modo freddo, cinico e impassibile, come se stesse analizzando i comportamenti delle cavie da laboratorio o con l’occhio dell’entomologo che studia le reazioni degli insetti. C’è moltissima carne al fuoco in Old, non manca una critica feroce al nostro stile di vita, all’ossessione patologica per l’aspetto esteriore, ci sono i dilemmi etici e morali – attualissimi in epoca pandemica – in merito a quanto e fino a dove possa spingersi la medicina in nome del progresso scientifico, arrogandosi il diritto “divino” di sacrificare vite umane in nome di un presunto beneficio per la collettività. Più che calcare la mano sulla componente horror o su quella fantastica e sovrannaturale, Shyamalan preferisce indagare l’animo umano, focalizzarsi sui drammi esistenziali e sui risvolti fisici e psicologici vissuti dai vari personaggi nell’arco di una giornata che equivale a una vita intera, sul singolo individuo costretto a fare i conti col passaggio traumatico e improvviso dall’infanzia alla pubertà, dall’adolescenza all’età adulta, sulle complesse, precarie e delicate dinamiche familiari, su malattie terribili come il cancro o l’Alzheimer. Sono questi i veri mostri e spauracchi del nuovo film di Shyamalan, reali, terreni e concreti, come già accaduto in molti dei suoi lavori precedenti, come ben testimonia la sua filmografia. I protagonisti sono alle prese con le loro paure e fragilità, acuite da una situazione straordinaria che sembra uscita fuori da un episodio di Ai confini con la realtà o di Alfred Hitchcock presenta, da sempre uno dei numi tutelari e dei punti di riferimento per l’autore de Il Sesto Senso, con una natura avversa che si ribella all’uomo che la minaccia col suo stile di vita irrispettoso e sconsiderato (altro tema attualissimo in tempi di pandemia e di cambiamenti climatici).
A non convincere affatto in Old, l’ennesima opera teorica e provocatoria, a tratti straordinaria, di Shyamalan, è la parte finale, piuttosto posticcia e pasticciata, che in parte rovina quanto di buono e interessante costruito in precedenza. Un lieto fine, con tanto di futile e inutile flashback inserito a mo’ di spiegone, che stona apertamente con gli umori, col clima e con l’atmosfera che si erano respirati fino a un quarto d’ora dal termine. Stavolta il twist finale, che in passato ha contribuito a rendere celebri e amatissimi dal pubblico alcuni film del regista cresciuto in Pennsylvania, sorprende in negativo, lasciando abbastanza interdetti e increduli.
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