Il triangolo che non c’è.
Quali e cosa sono i “passages”, i passaggi del titolo di questo bel film di Ira Sachs? Quelli del desiderio, e pare ovvio, ma anche quelli della prospettiva di vita alla quale ogni nodo della semplice trama conduce. E anche, forse in maniera meno esplicita, i possibili racconti della modernità liquida in materia sentimentale: libere relazioni, impegni matrimoniali, logiche familiari, condizionamenti parentali, ricatti psicologici, sbandamenti emotivi e sessuali, disimpegni etici.
Il materiale di partenza è quello di un qualsiasi triangolo sentimentale, un vero e proprio canovaccio buono per tutte le stagioni, ma al 57enne Sachs che ha all’attivo ormai una decina di lungometraggi (nessuno dei quali ricordato come notevole dalla critica) riesce di costruire personaggi vivi e rappresentativi del nostro tempo senza impelagarsi nei luoghi comuni, soltanto ricalcandoli con il giusto atteggiamento di chi va alla scoperta di cosa accade quando non si frappongono schermi di tipo culturale alle emozioni e ai desideri. Il regista Tomas tradisce il marito con una donna, l’insegnante elementare Agathe, e questo è per lui “eccitante”, niente di più ma anche niente di meno. Tanto che, dopo una prima esitazione, il mattino successivo lo racconta con un certo entusiasmo nella voce, nei gesti concitati e nello sguardo, senza schermi e senza ipocrisie, al consorte Martin. Ce n’è abbastanza per mettere in fibrillazione qualsiasi rapporto aperto, ma Tomas non sembra darsene per inteso o andare in crisi quanto il compagno. Mentre Agathe non si fa così tante domande, vive la relazione con Tomas fino alle sue conseguenze, forse solo sull’onda della passione (lo script sa essere ellittico con intelligenza) ma non con l’atteggiamento di una ragazzina poco avveduta, benché poi ci pensino i genitori di lei a riportare tutto ad una dimensione più realistica e persino prosaica. La scena dell’interrogatorio di Tomas da parte della madre di Agathe che deve tradurre tutto al marito sarebbe addirittura comica se non fosse anche il vero punto critico: l’effetto è stridente e doloroso per la ragazza – e leggermente straniante per lo spettatore – ma è un passaggio che nella sua ovvietà spezza l’incantesimo, che rende palese ciò che fin dall’inizio si capiva, che non si può andare da nessuna parte su basi fragili come queste. D’altro canto, anche Martin chiude la sua breve relazione con Ahmad (interpretato da Erwan Kepoa Falé, appena visto in un ruolo non troppo dissimile in Le Lycéeen di Christophe Honoré), anche loro non possono andare da nessuna parte su quei presupposti.
Tre lati non bastano per fare un triangolo, anche perché quello tra i tre protagonisti non diventa mai veramente tale un po’ come accade, tanto per citarne uno, in Un cuore in inverno di Claude Sautet. In ogni passaggio, appunto, uno di loro rimane fuori, estraneo e in qualche modo stupefatto: come nella sequenza in montaggio parallelo in cui Tomas e Martin scherzano e amoreggiano e Agathe li sente dalla camera accanto, distesa sul letto per traverso, come a tentar di colmare spazialmente la sua solitudine ed esclusione. O come nel finale, nella pungente riscoperta della propria confusione da parte di Tomas. Forse è proprio questo il risultato maggiore del film di Sachs: riprendere una storia in definitiva scontata e lasciare che i passaggi del cuore saltino fuori in piena luce, ma non caricandoli di senso, permettendoci così di evitare tanto l’identificazione con i personaggi – anche se l’empatia di tanto in tanto si affaccia – quanto la contemplazione a distanza. Una posizione un po’ scomoda in cui si aspetta sempre che succeda qualcosa, uno scarto, una curva rivelatrice, uno sbocco che però non giunge. Ricorda un po’ la vita, in effetti, e a qualcuno può indispettire che sia così, ma tant’è.
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