Seppellito sotto le intenzioni.
Allora, sia ben chiaro: chi scrive non è assolutamente contrario ai remake. Nonostante di questo (sotto)genere in terra americana si sia fatto ultimamente un vero e proprio mercato, con precedente e conseguente mancanza di idee, rifare un film, ricreare un’opera non è mai un male di per sé, anzi: ci sono alcune storie che devono essere aggiornate continuamente, perché universali, perché senza tempo, e perché in ogni epoca possono essere declinate in maniera differente con differente sensibilità per dimostrare la loro assolutezza.
Detto questo, non è certamente il caso del Pet Sematary del duo Kolsch e Widmer: che anzi operano la stessa azione del protagonista del loro film, Louis Creed (che ha le fattezze di uno stolido Jason Clarke), compiendo nefandezze necrofile su un oggetto morto. Il libro di Stephen King che c’è all’origine è quanto di più perfetto, terribile, doloroso, terrorizzante possa esserci nella letteratura del secolo scorso: King indaga con la lucidità dell’entomologo della specie e allo stesso tempo la leggerezza di un narratore horror – le due qualità essenziali del genio del Maine – sul significato di perdita e sulla difficoltà dell’accettazione, plasmando a modo suo una storia di ritornanti che ha le stimmate del dramma familiare. La grandiosità dell’opera ha spinto, nei relativamente ingenui anni ’90, Mary Lambert a trarre una sua personale rilettura di Pet Sematary, che aveva il magico dono (probabilmente inconsapevole) di restare in equilibrio sui generi, giocando essenzialmente con l’horror ma chiaramente raccontando altro. La leggerezza necessaria, la giusta distanza dal genere e dal dramma, hanno fatto sì che il film, anche ma forse soprattutto a distanza di anni, risulti ancora oggi fresco e coinvolgente: tralasciando per lo più il nucleo portante kinghiano, il suo cuore pulsante umanistico, non ha l’arroganza di voler strafare. Cosa che invece fanno, senza ritegno, Kolsch e Widmer: perfettamente consci della portata universale della storia, sembrano volerne fare una rilettura personale (dimostrabile dall’inspiegabile twist narrativo ex novo che dà il via alla storia, subito ripagato da un’altra invenzione di sceneggiatura rispetto al libro), ma poi dimostrano di non averne il coraggio. Perché stravolgere una parte del dramma, rovinando gli equilibri familiari narrativi, se poi non si ha il coraggio di andare fino in fondo, raddrizzando subito i binari e riportando tutto negli schemi precedenti? Perché accennare ad una interessante variazione sul tema (la processione di bambini in lutto dell’inizio) abbandonandola senza sbocchi? Un vorrei ma non posso continuo, che passa sui cadaveri dei personaggi trattati con superficialità dagli attori – persino Lithgow, che poteva essere una carta vincente, ripiega su mestiere e recita con il pilota automatico (anche lui, ad esempio, protagonista di uno sfasamento narrativo, la celebre stilettata al tendine, che non trova spiegazioni) -, che rende questo Pet Sematary una versione zombie della storia. Esanime, asfittica, lenta: a tratti con lampi di impennate gore (ma davvero sbiadite) che sono subito ritrattate, lascia che il lato psicologico emerga dalle pieghe del racconto ma poi lo rende fin troppo esplicito con approfondimenti psicologici da salotto: non lavora neanche sulla perversa attrazione per il malato (altro punto di forza offerto dal romanzo), e ottiene solo di risultare un film frustrante e frustrato, seppellito sotto le sue intenzioni. Che non erano neanche delle migliori.
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