La rimasterizzazione di un immaginario.
Jodorowski non è certo un regista prolifico: ma i ventitré anni passati lontani dalla macchina da presa (è del 1990 Il Ladro Dell’Arcobaleno, mentre del 2013 La Danza Della Realtà, prima parte del dittico che si conclude con Poesia Senza Fine) sembrano non aver minimamente scalfito il suo Mito, né tantomeno la forza evocatrice delle sue immagini e la potenza del suo racconto.
Certo è che anzi, per poter affrontare Poesia Sin Fin va preso in considerazione l’intero corpus, la sua vita, la sua opera e il suo cinema come un tutt’uno, unica maniera per parlare di un’opera esplosa e legata indissolubilmente più al regista stesso che al cinema come mezzo. L’immaginazione come terapia, l’arte come guarigione e come espediente più sublime per scardinare i limiti imposti dal razionale: è questa la psicomagia che Jodorowski ha creato verso gli anni ’60 dopo l’incontro con la guaritrice messicana Pachita. Poesia Sin Fin è intriso fino alle ossa di psicomagia, fino quasi ad essere lui stesso un rito apotropaico, una funzione palesemente falsa e artificiale fin dalla messa in scena per rappresentare l’estrema catarsi di un artista che prima di tutto è uomo, e prima di tutto vuole far pace con il suo passato.
Il risultato è un film fantasmatico, popolato da spettri del passato, del presente e del futuro; un film che esplode come un carnevale e rappresenta in un aggrovigliato slancio di metatestualità la famiglia come trait d’union fra realtà e finzione. E allora i figli di Jodorowski diventano (nella storia) il padre e il figlio del protagonista, il regista stesso compare e impone ai due un abbraccio salvifico e immaginario, l’attrice che impersona la madre indossa anche la parrucca della sua musa ispiratrice in un inno ad Edipo. È così che la memoria immaginaria di Jodorowski urla e fa rumore, e i suoi ricordi filtrati attraverso l’occhio vertiginoso della macchina da presa diventano storie colorate e brillocche, arricchite da nuovi particolari che servono a ridimensionare la realtà, per poterla rielaborare.
Poesia Senza Fine diventa allora una rimasterizzazione di un intero immaginario e di una vita, un film con immagini potentissime (la sarabanda finale) e personaggi indimenticabili (la nana, i clown, i deformi, la musa), affollatissimo di figure, movimenti, maschere e cartonati, amori e catastrofi, un’opera audace e generosa, naif e kitsch ma incredibilmente sincera, commovente, diretta, dura come una pietra e morbida come quell’amore che permea ogni fotogramma. E’ per questo, è cosi, che il cinema diventa taumaturgico, unica via per popolare la propria esistenza (passata) di quelle creature fantastiche che diventano l’unica via di fuga dal dolore dei giorni: Jodorowski stana il conflitto e lo scioglie materialmente nel film, prendendo per mano il tormento dei suoi personaggi e gettando una luce sentimentale sull’ombra tumultuosa della sua creazione. Perché alla fine per lui niente può essere vero o veritiero se non ciò che nasce dall’impasto tra spettri e realtà, e non c’è salvezza nel mondo se non con l’aiuto della poesia, convertendo la violenza della vita e i dolori del passato.
Ed è anche per questo che, sul finale, struggente, doloroso, necessario, è il regista in carne e ossa che unisce padre e figlio, in realtà fratello e fratello, per traslato verità e finzione: in un abbraccio liberatorio, in un mascheramento/svestizione che riporta cinematograficamente alla Montagna Sacra, e che allo stesso tempo consacra il medium al disordine della verità, e all’ordine della sua rappresentazione. Politico, insurrezionale, ampolloso, idealizzato, sincero, brutale, allegorico, lungo: l’alchimia finale tra spirito e spettacolo, mistica e barzelletta.
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