Una storia di famiglia.
Agli inizi del Novecento, Eduardo Scarpetta è il padre padrone del teatro napoletano, ma il suo dominio è meno incontrastato e pacifico di quanto possa apparire dal tripudio con cui le repliche ormai ventennali di Miseria e Nobiltà e l’iconica maschera di Felice Sciosciammocca vengono accolte dal pubblico. Il nascente cinematografo, del quale vediamo un brevissimo spezzone a inizio film (quasi come se Mario Martone volesse ribadire che quello che stiamo per vedere è cinema, non il teatro filmato che qualcuno avrebbe potuto credere), è già una minaccia per la scena teatrale tanto che Vincenzo, il figlio con cui Scarpetta è spesso in contrasto, medita addirittura di recitarvi e abbandonare la strada tracciata dal genitore che lo vuole invece suo emulo in tutto e per tutto. Ma non basta. A mettere in pericolo Scarpetta e il suo reame ci sono anche i fautori di un Teatro d’Arte che nelle loro intenzioni rappresenti per davvero il popolo, le sue attese, i suoi drammi, la sua vita quotidiana contro le matte risate e la natura totalmente d’evasione di quello popolare: Salvatore Di Giacomo, il futuro autore di Assunta Spina, ne è la punta di diamante, contornato da altri intellettuali gravitanti nella cultura partenopea, come il futuro re della canzone napoletana Libero Bovio.
Una lotta di famiglie, in pratica, una faida che può solo cominciare come in una tragedia greca con l’uccisione simbolica di un padre. Lo sa bene lo stesso Scarpetta, sa cioè che il suo personaggio Felice Sciosciammocca ha “ucciso” quello di Pulcinella e lo rivendica orgoglioso a inizio film. Il primo e difficilmente contestabile merito di Martone con Qui rido io sta nell’aver saputo rendere questa lontana scena culturale napoletana vivida e verace per il pubblico del nostro tempo, e non soltanto per gli eredi di quella tradizione. Per farlo, l’autore di Teatro di guerra non ha esitato ad assumere la struttura e le spoglie da tutti gli spettatori ben conosciute del mafia movie: cos’è infatti e in definitiva Qui rido io se non Il Padrino di Mario Martone (1), una storia nella quale la magniloquente, dispotica e schiacciante personalità del capofamiglia si irradia su figli e figliastri e su tutto un microcosmo locale? generando amore, consenso, odio, rabbia, chiacchiere, ammirazione e disapprovazione sotterranea, oltre a tutta una schiera di famigli e cortigiani, amanti e mantenute, adulatori, avversari dichiarati, traditori (2).
Guardate la festa per il compleanno della figlia Maria a Villa Santarella: Scarpetta vi si comporta da vero boss, con la tracotanza di un padrone di casa sfarzoso, eccessivo, sferzante e sicuro di sé, tanto da invitarvi i suoi detrattori e farli partecipare a un improvvisato concorso poetico d’occasione. E guardate anche la visita che Scarpetta fa a D’Annunzio in Toscana per chiedergli l’autorizzazione a mettere in scena Il Figlio di Iorio, una parodia del suo dramma La Figlia di Iorio: sembra l’incontro di due capiclan che si fronteggiano e si studiano, il condiscendente quanto ipocrita Vate circondato dalle sue amanti che occhieggiano sprezzanti e il capocomico napoletano con la sua maschera cangiante e capace di ogni arguzia come di qualsiasi infingimento. Tutto nel tremolare della luce sinistra catturata dal direttore della fotografia Renato Berta, preludio del futuro scontro senza esclusione di colpi bassi tra i due grandi autori, con la gazzarra dei tirapiedi dannunziani alla prima del Figlio di Iorio e poi in tribunale con l’arringa di Scarpetta che in nome della libertà dell’Arte si difende dall’accusa di plagio e contraffazione (e dove il magnifico carrello finale riesce ad essere in contemporanea il suggello di un mondo che non c’è più, il plauso al talento del grande istrione e la secca presa di distanza da una sceneggiata di marca smaccatamente populista).
Il mimetismo non è tuttavia il solo carattere forte di Qui rido io. Accanto al tratto maestro degli ultimi, sfavillanti anni di gloria del pater familias, Martone raffigura fin dall’inizio anche uno Scarpetta più intimo nel quale i bagliori della forza con cui tiene in pugno il suo piccolo mondo – in famiglia e sul palcoscenico – si intrecciano con i primi segni del sipario che sta per calare: in una delle prime scene Scarpetta si guarda nello specchio durante il trucco e pare scorgere i sintomi della fine; in seguito si identifica con quel medesimo Pulcinella che attraverso Sciosciammocca ha fatto dimenticare (in una scena che bilancia nel miglior modo possibile il protagonismo acre di un Toni Servillo mai tanto in parte). E ancora non basta se, in alcuni momenti, bombetta e bastone fanno intuire persino uno Scarpetta-Charlot, e al vitalismo si possono sostituire per un attimo la malinconia della solitudine, dell’esclusione dal mondo e del tempo che passa (come ricorda un cartello, Scarpetta non recitò più dopo la fine del processo vinto). Ma laddove il grande commediografo di Nu turco napolitano potrebbe apparire nel bene e nel male come l’unico protagonista del film, ecco che Martone non dimentica invece mai di rendere conto del dramma dei figli naturali (come nel Giovane Favoloso) e soprattutto illegittimi, mai riconosciuti e anzi mal sopportati dal padre, quasi costretti, come ricorda Eduardo al fratellino Peppino, a trovare la loro libertà e il loro riconoscimento a posteriori, sul palcoscenico, nella continuazione e nel superamento della sua eredità (in un finale che è un sentito omaggio alla grandezza e al magistero dei De Filippo, e di Eduardo in particolare).
La storia e la vita continuano, ci dice Martone, come il teatro: e ogni sipario che si chiude si riapre per riprendere da dove si era interrotto nell’atto precedente, alla ricerca di nuova linfa e nuova verità. Come una storia di famiglia, appunto. E, come ci insegna pure l’ultimo film di Marco Bellocchio, anche come il cinema.
(1) Quasi seguito e allargamento del tema, dopo la bella trasposizione (poco capita dalla critica) dell’eduardiano Il Sindaco del Rione Sanità.
(2) In una breve scena vediamo Gennaro Pantalena, grande caratterista e migliore amico di Scarpetta, lusingato dalle sirene dei concorrenti dell’autore di Na Santarella.
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