Sign In

Lost Password

Sign In

Rapito foto1

L’irriducibilità dei principi astratti.

“No, è morto, lo hanno ucciso gli ebrei” risponde una delle donne che lo accompagna alla sua nuova vita da battezzato cattolico al piccolo ebreo Edgardo Mortara che chiede se il Cristo sulla croce stia dormendo. La risposta è destinata ad avere un effetto profondo sul bambino, che da quel momento vive in un campo di battaglia tra fedi armate l’una contro l’altra: tanto che ai genitori che reclamano la restituzione di Edgardo viene risposto che essa avverrà solo quando si convertiranno e si faranno cristiani.

L’ultimo film di Marco Bellocchio, liberamente ripreso dal caso Mortara che fu causa di scandalo e riprovazione del comportamento della Chiesa Cattolica nel decennio precedente la breccia di Porta Pia, potrebbe leggersi anche così, come revenge movie e contrappasso (uno dei molti possibili contrappassi) di un potere che si caratterizza a partire da un mitologema e da esso deduce le proprie leggi, opposizioni e ritualità. Il che spiegherebbe anche tutta la tragedia declamatoria e metastorica e in senso figurato urbi et orbi del Non possumus proferito a denti stretti e bava alla bocca da Pio IX (Paolo Pierobon, in un’interpretazione sensibile e potente allo stesso tempo) nei confronti del Cardinale Antonelli (Filippo Timi).

Più che a mettere sotto accusa il potere temporale dei papi o l’orrore di uno stato, religioso o laico che sia, a cui è concesso l’arbitrio di dividere addirittura le famiglie dai loro rampolli (fa notare en passant Giona A. Nazzaro su FilmTv che questo si può dire anche della Repubblica che chiede alle madri il sacrificio dei figli come soldati), il regista piacentino appare perciò motivato a esprimere il senso di una lacerazione che non si rimargina, quella tra i dettati della religione (dell’ideologia) e le umane aspirazioni alla giustizia del cuore e degli affetti. La separazione conclusiva – definitiva – tra il figlio cristiano Edgardo e la madre ebrea sul suo letto di morte non è dunque didascalico riepilogo di una dissertazione apostata, ma constatazione ultima di irriducibilità dei principi astratti alla vita intima degli uomini. Questo malgrado tutto il bisogno dei viventi di sentirsi uniti, amati, sostenuti, compresi: e mi pare che debba essere considerato in quest’ottica anche il repentino mutamento di umore e orientamento del giovane Edgardo nel famigerato episodio in cui, tre anni dopo la morte di Pio IX, la folla anticlericale tentò di gettare le spoglie dell’ex papa nel Tevere durante la loro traslazione alla Basilica di San Lorenzo.

Di tutto ciò in Rapito si fa plastico vettore lo stile, che ormai in Bellocchio può apparire consolidato e tuttavia non cessa di essere affinato di lavoro in lavoro. Si tratti di figure semplici (il montaggio alternato nel quale si mettono a confronto l’inutile – ai fini pratici – processo all’inquisitore di Bologna e la fervida efficacia del rito cattolico della cresima su Edgardo), dei proverbiali svolazzi onirici (si veda tra gli altri la lepida eleganza con cui una vignetta prende vita nello sguardo del papa, per poi riecheggiare nel corrusco incubo di circoncisione del pontefice) o delle anticipazioni che come rime libere si proiettano nel gioco dell’incompiutezza (il bambino che trova rifugio sotto le gonne della madre come in seguito, durante il gioco a rimpiattino, sotto la mantella del papa): nulla è lasciato al caso, eppure riverbera naturale come un quadro a cui manchi un’ultima cesellatura a quel punto solo formale e inessenziale. E se in Esterno Notte si poteva a momenti intuire una preoccupazione di intelligibilità per un pubblico televisivo meno preparato al grottesco e alle sprezzature artistiche dell’autore, in Rapito (diretto fin dal titolo) c’è un’intenzionalità tanto risolta che è seconda forse solo a quella di Marx può aspettare, il capolavoro degli ultimi anni del regista, che era tanto intimo quanto universale. Ma a suo modo: come sempre nel cinema di questo cineasta che è originale nella ripetizione e, consentitemi di dirlo, gioiosamente ripetitivo nella libertà.

voto_4

Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.