L’essenza del cinema.
Per quante volte si sia parlato (bene, ovviamente) di Steven Spielberg; per quanto il suo cinema sia stato analizzato, sviscerato, riletto secondo le declinazioni di ogni film, rivisitato, portato ad esempio, imitato, clonato – ebbene, tutto questo non basta. E a dimostrare l’incredibile vitalità di un cineasta che a 70 anni e dopo 31 film non smette ancora di cambiare, e stupire, e affascinare, arrivano a distanza di pochissime settimane uno dall’altro The Post e Ready Player One, due generi differenti, due storie neanche lontanamente comparabili, ma lo stesso modo di affascinare e fare cinema. Il salto temporale è dagli anni ’70 dei Pentagon Papers al 2045: ma è un “salto nel salto”, dal passato al futuro, dalla realtà del futuro ad un mondo distopico e virtuale. E poco importa il genere, allora: perché nei quattro decenni del suo percorso il corpus filmico di Spielberg ha sempre compiuto un passo in avanti, distillandosi in purissimo cinema.
E’ l’essenza del cinema, infatti, quella che Spielberg mette in scena: un passato intero sotto forma di icone svuotate, decontestualizzate e reinserite in un contesto dove sfilano senza soluzione di continuità, sprofondando nella crepa che separa il grigiore della vita “vera” dal tripudio frastornante di luci e colori di un immaginario che, all’improvviso, diventa prima ragione di vita e poi vita stessa. E’ questo in pratica il manifesto del post-postmoderno, il paradigma dell’unica maniera oggi possibile di creare immagini per il cinema (cinema di fantascienza o quantomeno fantastico): ripiegarsi su se stessi e su se stessi riflettere, immersi fino al collo nella nostra epoca costituita da continue rielaborazioni filmiche e seriali e sguardi retrospettivi, pronti a schizzare in avanti per immergerci nel passato. Ma non c’è solo questo.
Spielberg, da genio cinefilo e cinematografico qual è, di tutto questo paradigma teorico sfrutta le potenzialità narrative, rendendo credibile l’accumulo di citazioni con una struttura reiterativa che si rifà allo stesso game, come appunto in un perfetto gioco di rimandi. Il punto centrale estetico e teoretico diventa allora, quasi a metà film, l’immersione virtuale in medias res in uno dei più grandi horror non solo degli anni Ottanta, ma di tutta la storia del cinema: non è (solo) citazione e non è (più) omaggio, è piena reinvenzione che crossoverizza tutto, entrando letteralmente nelle immagini, negli spazi e nelle situazioni di un’opera riconoscibilissima e celebre per adeguarla al presente, al passato e al futuro. L’unica cifra stilistica riconoscibile di Spielberg, oggi, dopo decine di film e decine di generi e toni attraversati, non può quindi che essere la trasformazione dello spettatore in protagonista: ovvero lo slittamento dal sentimento di chi guarda fino ad un sentimentalismo universale e mai appagato, ribadendo il ruolo del Cinema come forma d’arte sovrapposta, doppiata e sostituita ma pienamente capace di creare emozioni e immagini, riflettendo sulla memoria e sul suo valore.
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