“La vendetta è nelle mani di Dio, non nelle mie”
A neanche un anno di distanza dall’uscita di Birdman o (L’imprevedibile virtù dell’ignoranza), vincitore di quattro premi Oscar come miglior film, regia, sceneggiatura originale e fotografia, arriva nelle nostre sale Revenant – Redivivo, il nuovo film di Alejandro González Iñárritu. Complice il trionfo all’ultima edizione dei Golden Globe dove ha ottenuto tre riconoscimenti per miglior film drammatico, regista e attore protagonista e il recente annuncio delle dodici candidature agli Oscar che lo vedono quindi come il favorito assoluto della vigilia, Revenant – Redivivo è uno dei titoli più importanti ed attesi dell’attuale stagione cinematografica.
Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Michael Punke, il film è incentrato sulla vera storia dell’esploratore e cacciatore Hugh Glass che nel 1822 prese parte ad una spedizione lungo il fiume Missouri in cui venne assalito da un orso e abbandonato morente dai suoi compagni di viaggio. Miracolosamente sopravvissuto, o per meglio dire risorto, sarà protagonista di una vera e propria odissea di tremila miglia in territori gelidi e inospitali con l’unico obiettivo di vendicarsi del torto subito.
Lascia senza fiato il folgorante e magistrale incipit, con l’imboscata da parte degli indiani che si trasforma in una sanguinosa e cruenta battaglia fatta di corpo a corpo, frecce e proiettili, così come il feroce e brutale attacco del grizzly, realizzato con un realismo talmente impressionante da imprimersi a lungo nei nostri occhi. È sorprendente come tutto ciò avvenga nei primi trenta minuti di un film che ha una durata superiore alle due ore e mezza, ovvero nella media degli standard hollywoodiani odierni relativi alla lunghezza da riservare ai titoli di punta della stagione.
Revenant – Redivivo è caratterizzato fin dal suo incedere da piani sequenza a profusione, vero marchio di fabbrica e ossessione stilistica di Iñárritu che dopo Birdman si avvale nuovamente della straordinaria fotografia di Emmanuel Lubezki che per l’occasione ha optato per speciali lenti grandangolari, in modo da avere a disposizione una maggiore larghezza di campo rimanendo comunque incollato agli attori.
Fortunatamente, col procedere della narrazione, si ha come l’impressione che il regista messicano sia interessato maggiormente alla storia che racconta piuttosto che a fare unicamente sfoggio del suo talento e dell’incredibile perizia tecnica di cui comunque è fin troppo consapevole, come ben testimoniano i suoi lavori precedenti. Una storia di vendetta, cupa, disperata e avvincente immersa in scenari selvaggi e incontaminati, dominati da una natura primordiale, indifferente alle sorti del genere umano. La macchina da presa rimane spesso incollata ai volti e ai corpi dei protagonisti, testimoniando le lacerazioni fisiche e i tormenti interiori di Glass, interpretato da un Leonardo DiCaprio chiamato qui alla performance più fisica e sofferta della sua carriera, messo a dura prova – come il resto del cast e della troupe – dalle proibitive condizioni metereologiche in cui è stato girato il film. Un’interpretazione estrema, estenuante e sfiancante di cui terrà conto l’Academy che potrebbe finalmente assegnargli quell’agognato premio Oscar che in passato gli è sfuggito per ben quattro volte.
Più che l’istinto di sopravvivenza è il bisogno di vendicarsi che spinge Glass a tornare nel mondo dei vivi, a non lasciarsi morire di fame o congelato. La natura, in tutta la sua abbacinante e feroce bellezza, è uno degli ostacoli principali durante il suo lungo ed accidentato cammino che assume i contorni di un calvario e di una sfida, impari e quasi impossibile, contro un destino spietato ed avverso.
Impressionante Tom Hardy, al solito straordinario e camaleontico nel calarsi nei vari ruoli per cui viene scritturato, nel dar vita ad un personaggio brutale, perfido e crudele da far impallidire al confronto il suo Bane nel terzo ed ultimo capitolo nolaniano dedicato al cavaliere oscuro.
A tratti Iñárritu sembra voler evocare il cinema di Terrence Malick, con cui condivide lo stesso direttore della fotografia che tra l’altro aveva illuminato il set di The New World – Il nuovo mondo (che presentava un’ambientazione in parte affine a Revenant), soprattutto nelle scene in cui il protagonista ricorda la moglie indiana e nel costante richiamo/dialogo con la natura.
Un’opera forte e intensa che riflette sulle sofferenze e sulle miserie umane, uno dei temi portanti nella filmografia del cineasta messicano, chiusa da una resa dei conti finale con un corpo a corpo terribile e violento a macchiare e sporcare di sangue la neve immacolata. Al termine il protagonista, sfiancato e sfinito, volge lo sguardo in camera come a voler fissare gli spettatori, testimoni partecipi e silenti del suo dolore.
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