Terremotare il genere.
A fronte di tanta irruenza e assunzione consapevole del genere del rape & revenge (Coralie Fargeat lo afferra nudo e crudo caricandoselo sopra fino alle estreme conseguenze, stando ben lontana anche solo dal sussurrare un’identità sfumata per il maschio (1), stupratore omicida e nulla d’altro, che è perciò come dire IL Maschio), viene da pensare che solo una massiccia dose d’astrazione può scongiurare il deragliamento del film: che è, a un livello narrativo, proprio questo, un continuo contornare ed un eterodosso confermare il codice per allontanarsi davvero e finalmente dal genere.
È abbastanza chiaro. Diciamo pure plateale. L’intento di Fargeat è terremotare tutto, portare una rivoluzione (di sguardo? è presto per dirlo) aderendo al canone tanto letteralmente e ironicamente da dare la sensazione che sia proprio l’opposto di quanto intende. Il fulcro fondante e centrale è naturalmente la sequenza del peyote e dell’aquila-fenice: simboli tanto lampanti da rischiare il fraintendimento e l’intruppamento – per gli spiriti pigri – nel clima da #MeToo imperante (del quale il film della regista francese è però ante litteram). Il resto è conseguenza: la caccia maschile a un femminile violato e sanguinante, con un ramo fallomorfo ancora conficcato in pancia e comicamente esorbitante dall’addome; la lotta della Nuova Donna con i due allegri compagni del Maschio capobranco, le derive che a più riprese sfidano il cartoonesco, il rovesciamento dell’inseguimento western nel suo contrario (che però, in fondo, finisce col confermarlo, con l’insediamento dell’outsider nel cuore del regno, una sorta di villa-Fort Apache traslucida e ipermoderna), la resa dei conti che stilizza ulteriormente il film in un bagno di sangue degno di un horror o di un Rambo, con i protagonisti privi di ogni residuato di sovrastruttura, a cominciare dai vestiti, e simili oramai a lottatori di sumo, ma viscerali e definitivi, trasformati in belve che lottano per il predominio di un territorio (ir)riconoscibile.
Coralie Fargeat, che ama il cinema della trasformazione di David Cronenberg, ne mette in scena una declinazione personalissima e dimostra piglio lucido nell’affrontare le convenzioni di scrittura anche quando si lascia prendere un po’ la mano (c’è proprio bisogno del lollipop per assimilare a una Lolita kubrickiana la protagonista, a inizio film? ok, fa parte della messinscena testè spiegata, però…). Ci sarà da aspettarla, si capisce, a una conferma: la virulenza dell’esordio fa impressione e mi sembra ricordi alla lontana la sfida lanciata dal primo film di Mathieu Kassovitz, L’odio. C’è da sperare che rimanga fedele a se stessa e a questa vocazione da sabotatrice e non si lasci imbrigliare in smanie di lotta senza quartiere sui messaggi “politici” da lanciare. Mettiamo le mani avanti.
(1) Già in questo sta tutta la differenza del mondo con lo sguardo dell’acclamata regista di Babadook, Jennifer Kent, che nel suo The Nightingale, in gara al Lido pochi giorni fa, affianca all’eroina vendicatrice un indigeno di sentimenti buoni e onesti, per un film che è – malgrado tutto – anche un trionfo del politicamente corretto.
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