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RIFKIN’S FESTIVAL

RIFKIN’S FESTIVAL

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Un mondo alla deriva.

Il messaggio, tra le righe, è disperato: non c’è niente da fare, capirci qualcosa è impossibile. Forse il cinema di Woody Allen è sempre stato questo, ma nei film degli ultimi anni un filo di lieve speranza faceva timidamente capolino accanto all’infelicità. Con Rifkin (pleonastico aggiungere “festival” in fondo), si arriva al grado zero della compiutezza sia nella forma che, soprattutto, nella sostanza. E ancora una volta l’unico baluardo contro l’insensatezza sono le immagini: quelle in bianco e nero dei film amati (1), quelle rifatte e ricreate da Storaro con passione filologica, quelle che rimandano al mondo e al tempo perduto, da Quarto Potere a Jules e Jim, da Fino all’ultimo respiro e L’angelo sterminatore al Settimo Sigillo. Ma anche la Morte, a quanto pare, non è più quella di un tempo.

Comunque sia e la si voglia vedere, Rifkin (un adeguato Wallace Shawn) è alla deriva. Le pene di cuore (non solo figurate), la gelosia, la solitudine e la depressione (il film è una sorta di flashback incastonato tra due brevi scene in cui il protagonista si rivolge al suo psicanalista) sono tutte frutto di un’anima fuori sesto e fuori posto. Così come Woody Allen è costretto a coreografare gli scorci di San Sebastián per compiacere la produzione europea, Mort Rifkin è obbligato a seguire la moglie per presentare il film del vanesio regista interpretato da Louis Garrel. Non gli fa bene. Solo il cinema, con la sua commistione di sogni e verità personali, funge in qualche modo da placebo: e questo potrebbe essere il refrain di tutto il cinema dell’autore. Ma non è una salvezza. Se un film garrulo ed esile come Rifkin’s Festival possiede un significato nel corpus alleniano è quello di ribadire che si fa cinema così come si vive, senza un senso, senza una direzione e senza la benché minima certezza di trovare il bandolo della matassa, in un’infinita ronde, in una pochade senza uscita. A cosa serve girare privi di meta accompagnati da una bella dottoressa di cui siamo innamorati senza poterne essere ricambiati (e arrivando al limite esorbitante dell’autocitazione – Vicky Cristina Barcelona – quando si scopre il tradimento da parte del suo macchiettistico marito pittore)? E perché continuare nella mitopoiesi se neppure i grandi autori del passato ci possono più infondere conforto?

Il fatto è che non se ne può uscire, ed ecco perché nemmeno la morte appare una soluzione. Tanto vale tirare a campare e andare avanti: a scrivere, a fare film, a emozionarsi e ad illudersi.

(1) Ma amate da chi? Da Allen stesso o da Rifkin? Forse poco importa, ma nella sua autobiografia il regista di Io e Annie non fa riferimento esplicito, se non per vaghi accenni nel lungo elenco di film amati, a Welles, Truffaut, Godard o Buñuel.

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Denis Zordan
Il Matrimonio di Maria Braun di Fassbinder ha mutato un liceale snob e appassionato di letteratura in un cinefilo, diversi lustri fa. Da allora i film sono stati tanti e le folgorazioni moltissime: da Heat di Michael Mann (“Il” film) agli heroic bloodshed di John Woo, passando per valangate di pellicole orientali e la passione per il cinema di Fritz Lang, Jean-Pierre Melville, Alfred Hitchcock, Werner Herzog, oltre che per i thriller e gli horror. Ha scritto per Cinemalia, The Reign of Horror, CineRunner. “Il Bel Cinema”, di cui è il fondatore, ha l'ambizione di mettere un po' di ordine nella sua gargantuesca voracità: ma è probabile che finisca con l'acuirla ancora di più.