“Le ribellioni si fondano sulla speranza”.
A un anno di distanza da Il Risveglio della Forza, il settimo capitolo di Star Wars diretto da J.J. Abrams che aveva deluso una parte dei fan della prima ora, arriva sui nostri schermi il cosiddetto primo spin-off dell’universo fantasy/sci-fi creato e ideato da George Lucas nel 1977.
Rogue One: A Star Wars Story è destinato ad essere amato e apprezzato dal pubblico adulto cresciuto con la prima trilogia, realizzata tra la fine degli anni ’70 e la prima metà degli ’80, ma è assai probabile che deluderà e annoierà chi si era da poco avvicinato al mito e all’universo di Guerre Stellari, compresi soprattutto i più piccoli che si ritroveranno al cospetto di un’epopea cupa, funerea e mortuaria difficile da gestire e da metabolizzare.
Gli eventi narrati in Rogue One, secondo film del franchise prodotto dalla Disney dei sei previsti e pianificati al momento, si collocano a livello cronologico dopo il terzo episodio (La vendetta dei Sith, ultimo capitolo dei prequel diretti da Lucas tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio) a ridosso di quelli descritti nel quarto (Una nuova speranza, il primo film della serie). Alla luce di ciò, trattandosi di un’opera incentrata su fatti già esposti nella celebre scritta iniziale scorrevole inaugurata da Lucas proprio nel capostipite della saga – durante la battaglia spie ribelli sono riuscite a rubare i piani segreti dell’arma decisiva dell’Impero, la Morte Nera, una stazione spaziale corazzata di tale potenza da poter distruggere un intero pianeta – fa sorridere ancor più del solito il terrore di molti d’incorrere nei temutissimi spoiler prima di aver portato a termine la visione del film. In Rogue One il regista inglese Gareth Edwards (Monsters, Godzilla) e il duo di sceneggiatori composto da Chris Weitz e Tony Gilroy prendono in esame proprio quel piccolo ma fondamentale segmento dell’universo di Star Wars per trarne un war movie sporco, adulto e disperato – antitetico all’effetto vintage e nostalgico scaturito da Il Risveglio della Forza – dove il Lato Oscuro è all’apice della sua potenza e a un manipolo di ribelli non resta che lanciarsi in una missione folle e impossibile per ridare un minimo di speranza agli abitanti della galassia dominata col terrore dall’Impero. La scelta di calarsi in un contesto più materico e terragno e confrontarsi con titoli come Quella sporca dozzina di Robert Aldrich e Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah risulta vincente, coraggiosa e anche sorprendente se si considera che stiamo pur sempre parlando di una produzione Disney. Edwards si accosta all’universo mitopoietico di Star Wars con maggior crudezza e realismo rispetto ad Abrams e con un rispetto filologico davvero encomiabile. Va sottolineato comunque che per certi aspetti se lo può anche permettere, avendo a che fare con un racconto autoconclusivo che gli lascia più libertà di manovra e meno pressione rispetto ad Abrams, chiamato un anno fa a rinverdire il mito cinematografico attraverso il primo capitolo di una nuova, attesissima, trilogia e a instradare al culto di Star Wars le nuove generazioni. Tra i nuovi personaggi proposti da Rogue One, che dopo la Daisy Ridley de Il Risveglio della Forza si affida nuovamente a un’eroina femminile interpretata da Felicity Jones, uno dei più riusciti è K-2SO, un droide imperiale riconvertito dalle forze ribelli che esteticamente ricorda non poco sia il robot protagonista del film d’animazione Il gigante di ferro diretto da Brad Bird nel 1999 sia quelli presenti sull’isola fluttuante di Laputa ne Il castello nel cielo firmato da Hayao Miyazaki nel 1986. Meno buffo e simpatico dei soliti droni che costellano da sempre il mondo di Guerre Stellari, più cinico e combattivo, rispecchia perfettamente i toni seri e adulti voluti da Edwards. Dopo un incipit bello e suggestivo il film incappa in alcune lungaggini e in qualche passaggio a vuoto per poi riaccendersi nella seconda parte, in mezzo all’inferno della battaglia, e terminare in crescendo, con un finale da applausi che si ricollega perfettamente alle origini del mito, là dove tutto è cominciato. Peccato per la colonna sonora (la prima della saga fantastellare non composta da John Williams ma affidata a Michael Giacchino) mai realmente emozionante, per il pessimo doppiaggio italiano (particolarmente vergognoso l’insignificante e monocorde timbro vocale di Darth Vader che nella versione originale invece è sempre doppiato da James Earl Jones) e per la goffa e imperdonabile resurrezione digitale di Peter Cushing, il grande interprete inglese scomparso nel 1994 che nel primo Star Wars aveva vestito i panni del governatore Tarkin, che provoca un deleterio e stucchevole effetto PS4 ogni qualvolta lo vediamo interagire sulla scena con attori in carne e ossa. Almeno nel buio della sala dovrebbe essere ancora lecito sognare e fantasticare senza essere bruscamente interrotti da effetti pacchiani e insistiti (si noti soprattutto il tremendo e innaturale movimento degli occhi). Sul divano di casa poi chi vuole può sempre accendere la play, impugnare il controller e immergersi a suo piacimento nell’esperienza videoludica che è ben distante e diversa (e tale deve restare) da quella cinematografica.
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