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La trasposizione del libro di Don DeLillo.

Rumore Bianco di Don DeLillo è un romanzo distopico del 1985 in cui realtà e paura della morte si intrecciano nella società contemporanea. Il rumore bianco, invece, è stato definito da diversi studi quasi come una dipendenza: suoni come quello del fon, del frigorifero notturno, sono utilizzati sempre più spesso da più persone come sottofondo per concentrarsi o per addormentarsi. È un rumore che non ha periodicità, ed è costante in ogni spettro della frequenza: inevitabile il collegamento con il libro di DeLillo, con la tecnologia a fare da collante.

Il romanzo è scritto da un vero e proprio maestro del postmodernismo, ed è diviso in tre ampie parti: nella prima, al centro c’è la famiglia Gladney, tipicamente americana, con sentimenti ed emozioni anestetizzate dalle nuove tecnologie che li portano ad avere dialoghi assimilabili ad una satira; nella seconda, la stessa famiglia è costretta a fuggire dal proprio quartiere per una nube tossica liberata dopo un disastro ferroviario che ha portato ad una perdita di rifiuti tossici; l’ultima parte mette in campo la co-protagonista del libro insieme ai Gladney, la morte. Una scrittura magnetica rende Rumore Bianco una sorte di libro emblematico della e sulla fine del XX secolo. Nessuno probabilmente avrebbe avuto il coraggio di trasportare tale moloch su grande schermo: per difficoltà di traduzione, di adattamento, per il pericolo di scivoloni considerando l’altissimo livello di letterarietà con cui DeLillo compone le sue pagine fitte di un periodare astratto e sospeso. In pochi sarebbero stati capaci di farlo.

Noah Baumbach l’ha fatto, probabilmente un po’ con la temerarietà che ha sempre contraddistinto la sua visione di cinema, un po’ per l’eccessiva sicurezza nelle sue capacità – e anche sempre nella sua visione. Un mood cinefilo che lo ha fatto emergere dalle acque vischiose dell’indie (che proprio lui ha contribuito a diffondere) con la convinzione di avere una cifra autoriale capace di reggere il confronto in un mare più ampio.

Se il Rumore Bianco di DeLillo gira allora intorno alla percezione della realtà, o meglio intorno al problema di percezione; White Noise di Baumbach inizia con il ritmo delle ritualità che devono dare un senso all’adattamento per immagini di un testo che replicava di suo l’automatismo della peggiore produzione televisiva. È il tempo delle sitcom che si insinua nella quotidianità, travolge le relazioni e rende la vita un’abitudine – pericolosa – e predefinita.

L’adattamento era quindi sdrucciolevole non tanto per la difficoltà in sé, quanto perché DeLillo pensa prima e scrive poi già per immagini, ha una ritmica televisiva, traspone su un piano espressivo altro il realismo letterario. Portare la storia dei Gladney su grande schermo voleva allora dire compiere un doppio salto carpiato, nello stesso momento un passaggio che era duplice e di ritorno: un tour de force però sprecato, che non riesce a trovare una sua forma compiuta, anche considerando che lo stile stesso deve adattarsi e trasformarsi contorcendosi, aggiungendo modi e modalità all’approccio di un regista altrove e solitamente minimale.

È per questo che Baumbach con Rumore Bianco assume quell’andamento convenzionale che non ha mai avuto prima, e che lo porta ad una soluzione che non gli appartiene – o meglio, non gli apparteneva fino a prima di questo film. Perché Rumore Bianco alla fine espone e non dichiara, mette in chiaro e non spiega: è un racconto che mostra tutto ciò che dovrebbe suggerire, senza sottotesti e senza sforzi, perché le parole di DeLillo che usa Baumbach erano già immagini che suggellavano il senso. L’alienazione della famiglia protagonista, l’incistamento della finzionalità televisiva nella vita reale e il plastificarsi di questa; sono tutte cose che Homer Simpson e Matt Groening preconizzavano tre decadi fa, e che il WandaVision dei Marvel Studios ha raccontato con fare lapidario e decisivo. Rendendo White Noise un film vecchio ancora prima di uscire.

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Gianlorenzo Franzì
Figlio della Calabria e di Lamezia Terme, è critico onnivoro e militante, preferisce il rumore del mare e il triangolo Allen-Argento-Verdone. Vive e si nutre di cinema che infiamma: si commuove con Lynch e Polanski, Nolan e Cronenberg, pugni in tasca e palombelle rosse, cari diari e viali del tramonto, ma è stato uno dei primi critici ad accorgersi (e a scrivere) in maniera teorica delle serie tv e della loro inesorabile conquista del grande schermo. Incredibile trovi il tempo di fare anche l’avvocato: perché dal 2007 è direttore artistico della Mostra del Cinema di Lamezia Terme - LFF da lui creata, dal 2004 ha un magazine tv (BUIOINSALA, ora in onda dalle sale del circuito THESPACE) e uno in radio (IL GUSTO DEL CINEMA), scrive o ha scritto su Nocturno Cinema, Rivista Del Cinematografo, Teatro Contemporaneo e Cinema, Weird Movies, ha pubblicato due saggi (uno su VOCI NOTTURNE, uno su Carlo Verdone). Ha una good wife ma si è perso nei labirinti di LOST: ancora non si è (ri)trovato.